Ogni magistrato si interroga sul senso della pena: che la chieda o che irroghi. Gherardo Colombo, ex pm del pool di Mani Pulite, si risponde così: «Da giovane giudice credevo nella funzione educativa del carcere, della punizione. Oggi, dopo aver conosciuto le prigioni e anche molti che vi sono finiti, conosco la distanza immensa tra quanto scritto in Costituzione e la realtà delle cose. E non credo il carcere sia uno strumento giusto».

Eppure in Italia far tintinnare le manette è sempre stata una cifra del legislatore.

In alcuni periodi sono stati presi provvedimenti in direzione diversa. Di solito a causa di eventi esterni, però. Penso alla sentenza Torregiani, con la quale la Cedu ci condannò pesantemente per la condizione delle nostre carceri e dunque si presero provvedimenti per prevenire il sovraffollamento. Nel giro di qualche anno, tuttavia, siamo tornati quasi agli stessi numeri.

Come mai è così impensabile invertire la rotta?

Anche per timori elettorali. Pensi alla riforma dell’ordinamento penitenziario a cui lavorò il ministro Orlando: gli Stati generali dell’esecuzione penale e le tre commissioni di riforma erano arrivate a stendere anche l’articolato, finì tutto praticamente in nulla.

Invece le leggi che inaspriscono le pene vengono approvate a furor di popolo, come nel caso del reato di evasione fiscale.

E’ vero, ma io credo che la fede salvifica nelle manette non tenga conto della relazione tra lo strumento e le conseguenze che esso produce. Le faccio l'esempio della corruzione: sono anni che si aumentano le pene, ma il fenomeno corruttivo sostanzialmente rimane invariato.

E dunque perchè si continuano ad aumentare le pene, se i fatti dimostrano che non serve?

Perchè è la strada più semplice, e permette di guadagnare il consenso dell’opinione pubblica. Quel che però non si ottiene, purtroppo, è di mettere a fuoco il problema.

Perchè il giustizialismo paga, elettoralmente parlando?

Prima facie sembra strano, considerando che a fronte di una maggior richiesta di sicurezza, i reati in Italia continuano a diminuire. E questo, pur con un processo penale disastrato, anche per quel che riguarda l’esecuzione.

Lei come se lo spiega?

Il carcere rassicura. Da un lato, logicamente, si pensa che le persone in carcere non possono commettere reati ( ma si dimentica che la gran parte delle pene è temporanea), e chi ha subito una detenzione non conforme ai principi costituzionali, quando esce torna facilmente a delinquere: la recidiva in Italia è molto alta. Dall’altro, pensare che i colpevoli stanno in carcere ci fa sentire tutti innocenti. Tutti noi abbiamo bisogno di sentirci giusti, e per farlo la strada più semplice consiste nel guardare alle carceri: se i colpevoli stanno in prigione, noi, che stiamo fuori, siamo innocenti.

Il problema dunque è trovare un diverso deterrente alla commissione del reato. Quale altro strumento si potrebbe adottare?

Prendiamo l’evasione fiscale. Perché gli italiani paghino le tasse, bisognerebbe convincerli che, con quel denaro, le istituzioni garantiscono i loro diritti: l’istruzione, la salute, la libertà personale e così via: non possono esistere diritti se non esistono le risorse per renderli effettivi. Per dire, il diritto all'istruzione esiste solo se esistono i soldi per pagare gli stipendi agli insegnanti. Poi il denaro pubblico andrebbe speso con maggiore oculatezza: in questo modo si toglierebbe un alibi a chi non paga le tasse e si giustifica sostenendo che i suoi soldi vengono sperperati.

Questo però non può valere per tutti i reati.

Mi limito a una considerazione: nonostante l’impegno e i mezzi messi nelle indagini di Mani pulite, la corruzione è ancora qui. Nonostante l’impegno rilevantissimo nella lotta alla mafia, anche con misure che, a mio parere, talvolta travalicano il dettato della Costituzione come l’ergastolo ostativo, la mafia esiste ancora e sta progressivamente conquistando regioni che ne erano indenni. Allora mi chiedo: vogliamo osservare questi dati di realtà, per tentare una riflessione?

La voce della magistratura, invece, rimane ancora molto orientata al carcere.

È il loro lavoro, del resto: difficile pensare che chi manda in prigione la gente pensi che non sia utile. Però la invito a considerare che le voci che si fanno sentire di più nel sostenere la necessità del carcere sono poche, ripetitive, spesso di pm, raramente di giudici.

Anche lei, quando entrò in magistratura, la pensava così?

A diciotto anni mi iscrissi a giurisprudenza per diventare giudice penale ( e non pubblico ministero), perché ritenevo che l’inflizione della pena fosse educativa e mi fidavo che quanto si legge nella Costituzione: che le pene non dovessero essere contrarie al senso di umanità, dovessero tendere alla rieducazione, che fosse vietata qualsiasi forma di violenza fisica o psicologica sulle persone recluse. Non solo, entrai in magistratura con la voglia e l’intenzione di contribuire al lavoro della Corte costituzionale ( che decide su impulso del giudice) e, conseguentemente, del legislatore per l'adeguamento del nostro sistema penale alla Carta.

E poi?

Entrai in magistratura nel 1974 e, nei primi tre anni, feci il giudice in dibattimento in una sezione specializzata nei reati di sequestro di persona, che allora erano molto diffusi e nella quale si infliggevano pene spesso non inferiori ai 20 anni. Nonostante credessi che la pena dovesse essere strumento educativo, mi accorsi che facevo molta fatica a infliggere pene. Così chiesi di passare all’ufficio istruzione.

Cosa ha imparato in tanti anni e tanti processi?

Come le dicevo, credevo che la pena, circondata dalle garanzie costituzionali, fosse educativa. Notavo però che in carcere ci andava quasi esclusivamente la povera gente, quasi mai i ' colletti bianchi'. Pensavo che si dovesse riequilibrare la situazione applicando il carcere anche a questi, quando colpevoli. Progressivamente, tramite la lettura, l'approfondimento, la conoscenza delle condizioni concrete del carcere, rendendomi sempre più conto della distanza tra ciò che sta scritto nella Costituzione e quel che succede nella realtà, i dubbi sono diventati sempre più consistenti, ho iniziato a farmi domande per culminare con quella decisiva: è giusto il carcere, è efficace? Specie quando si incomincia a riconoscere come persone coloro che commettono reati.

Si diventa garantisti solo quando si viene toccati in prima persona dal sistema penale?

La parola non mi piace, come non mi piace giustizialista. Io credo che si diventi ' garantisti' quando si iniziano a considerare coloro che hanno commesso un reato esseri umani. Purtroppo la nostra società vive in un equivoco formidabile: la Costituzione è una legge di inclusione sociale, la cultura sta dalla parte dell’esclusione. Quando regola e cultura confliggono, a vincere è quest’ultima. Tanto che, alla fine, il legislatore finisce con il produrre leggi in sintonia con la cultura dominante e quindi in contraddizione con lo spirito della Carta.

Si può sciogliere, questo equivoco?

Il problema è che alla fin fine si tratta di fede. Parlare di giustizia oggi è come mettere a confronto due tifoserie di calcio, dominate dalla passione ma non propense al dialogo. Questo rende molto difficile lavorare nella direzione giusta.

Se dovesse ipotizzare una strada?

Le parlavo dei miei anni ad occuparmi di sequestri di persona a scopo di riscatto. Oggi il fenomeno è praticamente scomparso. Non credo che ciò sia dovuto all’aumento delle pene, ma all'introduzione del blocco dei beni, del divieto di pagare il riscatto. Il reato è diventato infruttifero, quindi si è smesso di commetterlo.