Neanche fosse il D’Alema d’antan con Clinton e Blair, Matteo Renzi ha scaldato la platea leopoldina al grido di “sarò il Macron italiano”. D’Alema, ormai un quarto di secolo fa, proponeva l’allineamento dell’Ulivo ai paradigmi politici del centrosinistra mondiale. Una specie di Terza Via che muovendo dalla Quarta Internazionale sarebbe dovuta sbucare sulla Quinta Strada. A parte la sopravvivenza del liberismo, che da allora in Italia trovò cittadinanza anche a sinistra, finì nel nulla al primo cambio di ciclo della politica statunitense.

Ma Renzi- Macron? Non è nemmeno un inedito, prima ancora era stata la volta di David Cameron... E nonostante macroscopiche differenze di storia personale, e di costruzione della leadership. Emmanuel Macron ha un cursus honorum iniziato da filosofo assistente del filosofo Paul Ricouer, più una laurea a SciencePo e l’alta amministrazione dai banchi dell’Ena che lo han portato sino al ruolo di consigliere economico e poi di ministro delle Finanze di Hollande ( la scuola politica che discende direttamente da Mitterrand), e passando prima per una brillante carriera di giovanissimo stratega degli investimenti per la banca d’affari Rothschild ( curò le operazioni di Pfizer e Nestlé, e aveva trent’anni). Il curriculum di Renzi prima del non trionfale approdo a Palazzo Chigi grazie a una classica crisi di governo extraparlamentare occupa poco più di una riga: laurea in legge a Firenze, segretario giovanile del Ppi, segretario provinciale della Margherita, presidente di provincia e sindaco di una «old pretty town», in Parlamento solo come assistente dell’onorevole Lapo Pistelli, oltre a una breve controversa esperienza di lavoro nella ditta del padre.

Certo, nel grido “sono il Macron italiano” c’è l’evidente richiamo a una “rupture” politica. Ma Renzi ha chiamato a qualcosa di diverso, alla rottamazione, mentre Macron si è augurato la ricandidatura di Hollande all’Eliseo e, quando questi ha fatto un passo indietro, senza scadere in attacchi personali o politici ha lanciato il suo movimento liberale ed europeista En Marche. E in una formidabile corsa di pochi mesi è stato eletto presidente della République con quasi 21 milioni di voti e 309 deputati in Parlamento. Per non dire che ovviamente Renzi non potrebbe essere il «Macron italiano» perché perfino Macron non potrebbe essere Macron senza il semipresidenzialismo e il sistema di voto a doppio turno.

Ma al di là dell’impietoso confronto tra non parallele vite cui Renzi stesso si è incautamente esposto, c’è un’altra domanda da porsi: perché mai un politico italiano debba fare riferimenti all’estero per tentare di affermare la propria leadership. É il provincialismo italiano, certo, o come dire il volto negativo dell’italica esterofilia. Non ci sarebbe nulla di male nel guardare a più solidi modelli, a figure che ispirano positivamente ( è anche un contemporaneo refrain statunitense questo, solo che nella scena americana lo si usa per far emergere personalità «dal basso» ). Se non fosse che sembra, invece, una scorciatoia comunicativa. Un modo per colpire l’immaginario pubblico. Un mezzo rapido ed efficace per dire « sono forte come lui, come lui posso vincere».

Le cose si complicano se si guarda ai meccanismi istituzionali coi quali si vorrebbero rinnovare la politica immettendo nel sistema efficienza e stabilità. Gli anni Novanta furono segnati dalla estenuante discussione dentro e fuori la Bicamerale guidata da Massimo D’Alema circa la scelta tra l’iscrivere in Costituzione il modello Westminster o il semipresidenzialismo. Una, due, tre, cinque bozze Salvi ( Cesare, che redigeva i documenti), e alla fine prevalse il modello francese: solo che poi, proprio la notte prima dell’arrivo nell’Aula parlamentare della riforma, Berlusconi rovesció il tavolo: «Troppi pochi poteri in politica estera» fu la scusa. Per carità, il tentativo di quella Bicamerale fu serio, con un anno di lavori letteralmente giorno e notte, e centinaia di audizioni con tutti i settori interessati a una riforma costituzionale che disegnava istituzioni in equilibrio tra loro: ma a nessuno venne mai in mente - e qualche mente all’epoca c’era, nella Sala della Regina- un organico disegno «autoctono».

Anche considerando che ovviamente i modelli istituzionali presenti «in natura» son quelli, bisognava per forza puntare al rigido bipartitismo inglese, o al presidenzialismo temperato di Parigi? Abbandonando il modello italiano, forse l’unico vero sistema parlamentare compiuto in una grande democrazia occidentale? E anche in tutti gli altri tentativi a seguire, non bastava correggere i suoi difetti ( che non son pochi), bisognava per forza far turismo nelle altrui istituzioni? Con la legge elettorale non va meglio. Per farla breve, a un certo punto si arrivó a parlare di «sistema canguro», la legge elettorale australiana che è di fatto un maggioritario uninominale secco, ma permette liste interminabili con candidati di tutti colori. E si prese in altrettanto semiseria considerazione il sistema israeliano, peggiore come si sa perfino di quello italiano in quanto a produzione di instabilità governativa. Si può affermare senza tema di smentita che l’unica legge elettorale originale ( in senso etimologico) italiana sia stata il mix di un quarto di proporzionale e tre quarti di maggioritario che ha retto fino all’arrivo dell’esiziale Porcellum: quella legge la scrisse un austero e defilato deputato di nome Sergio Mattarella. É un sistema che ha funzionato bene, consentendo alternanza e stabilità di governo, pur nell’ambito di traballanti coalizioni. Ma poi è stata sostituita dal Porcellum, dall’Italicum mai entrato in funzione perché sonoramente bocciato dalla Corte costituzionale, e dal suo parente stretto Rosatellum. Sistemi di voto chiamati in latinorum, con tanto di «um» finale per raggiungere un fine molto «aum aum» : erano, loro sì, 100% made in Italy. Ma inventati dalle forze politiche in carica in quel momento per evitare la vittoria degli avversari politici di quell’esatto momento. E per giunta, quando l’avversario cambia, poi si vuol cambiare anche la legge con cui si va al voto.

L’unica originalità italiana i politici nostri contemporanei l’hanno applicata alle regole con cui eleggono i parlamentari, e al fine unico di garantire la propria sopravvivenza. Adesso infatti, per tornare al «Macron italiano», si parla di rispolverare il sistema proporzionale. Che non è un male assoluto: in una società come quella italiana da sempre divisa in fazioni, per storia e si direbbe anche per antropologia, il proporzionale ha il vantaggio di dare rappresentanza a ciascuno, evitando che le minoranze si mettano a dar battaglia in tutti i modi perché ostracizzate. Un non trascurabile effetto pacificatorio, mentre all’obiezione circa l’instabilità dovuta alle coalizioni di governo che la legge ( e gli orientamenti di voto degli italiani) rende inevitabile si puó controbattere con un argomento di cui si ha controprova: anche i governi che discendevano dal più recente maggioritario italiano, il Mattarellum, avevano tutte le fibrillazioni degli esecutivi di coalizione. Dunque, anche il proporzionale può andare bene. Purché non lo si costruisca tagliandolo per rispondere a esigenze del momento. Considerando che il Macron francese non ha mai neanche pensato di modificare le regole istituzionali a misura dei suoi problemi politici.