Filippo Penati è morto ieri e, come hanno scritto i due figli, se n’è andato «senza clamore». Aveva 66 anni e gran parte della sua vita l’aveva dedicata alla politica. Fu funzionario del Pci, poi dei Ds e infine del Pd, partito col quale venne eletto presidente della provincia di Milano. Ma con l’elezione arrivarono i guai giudiziari. Nel 2011 la procura lo accusò di far parte di un sistema di tangenti, il cosiddetto «sistema Sesto».

Furono anni terribili nei quali, come spiegò lui stesso, si insinuò il male che di li a qualche anno lo avrebbe ucciso: «Un anno fa - raccontò al Corriere nel 2018 - mi è stato riscontrato un cancro, e i medici concordano che è anche conseguenza della mia vicenda giudiziaria». Un vicenda durata sei lunghissimi anni che finì con un’assoluzione ma anche con una carriera politica ridotta in cenere.

Negli ultimi anni si era dedicato allo sport e ai nipoti. Guardava alla politica con malinconia e con preoccupazione: «No, non ho mai pensato di rientrare in gioco. Sono tempi di populismo».

«Mi è stato riscontrato un cancro e i medici concordano che è anche conseguenza della mia vicenda giudiziaria. Da un anno sto combattendo. Questa è la sfida più importante della mia vita». Quando, nel luglio scorso, venne condannato in appello dalla Corte dei Conti per la vicenda Milano- Serravalle, Filippo Penati svelò al mondo la malattia che ieri notte l’ha portato via a 67 anni, alla Multimedica di Sesto San Giovanni, città che amministrò per due mandati. Prima assessore comunale della ex Stalingrado d’Italia, poi sindaco e segretario provinciale del Ds, l’ex braccio destro di Pierluigi Bersani nel 2004 venne eletto presidente della Provincia di Milano, consacrando una carriera politica in ascesa.

Un percorso di successo che si è però scontrato contro il muro della giustizia il 20 luglio 2011, giorno in cui la Guardia di Finanza bussò alla sua porta per perquisire la sua casa e il suo ufficio. Alla base di tutto c’era una storia di tangenti, prontamente ribattezzata da tutti i media “sistema Sesto”. Quella narrazione, rimbalzando di giornale in giornale, distrusse in un colpo solo tutto quanto.

Ma di quel sistema i giudici non riuscirono a trovare nulla negli indizi portati in tribunale dall’accusa, mai trasformati in prove, tanto da decidere di assolverlo laddove non era già intervenuta la prescrizione a chiudere tutto. «Manca l’assoluto riscontro in termini probatori», avevano scritto a dicembre 2017 i giudici d’appello, riferendosi all’accusa di corruzione. «Non risulta - proseguivano - che le condotte attribuite agli imputati possano oggettivamente qualificarsi come atti contrari ai doveri di ufficio». L’eco mediatica di quell’inchiesta, però, portò Penati ad autosospendersi dal Pd, per poi vedersi sbattere la porta in faccia dai compagni di partito, che lo espulsero. «Sulla base di un semplice avviso di garanzia - raccontò all’Adnkronos - senza sentire il dovere di

ascoltar-mi, in violazione dello statuto e delle più elementari norme costituzionali sulla presunzione di innocenza, sono stato espulso da un giorno all’altro dal partito a cui avevo dedicato tanta parte della mia vita, accrescendo così la gogna mediatica verso di me. Ancora più grande è stato il mio dolore quando i Democratici di Sinistra decisero di costituirsi parte civile contro di me nel processo».

Penati rinunciò anche alla poltrona di vicepresidente del Consiglio regionale, imboccando la strada che lo portò al ritiro dalla politica, subito dopo lo scioglimento del Consiglio regionale. Il processo, però, terminò nel 2017, dopo sette anni di udienze, con una conferma in appello dell'assoluzione di 11 imputati imputati perché «il fatto non sussiste».

Per la procura di Monza, Penati avrebbe fatto parte di un presunto sistema di tangenti da quattro miliardi di lire, pagate tra il 2001 e il 2002. Un’indagine partita dopo le dichiarazioni dell’ex proprietario delle aree Falck e Marelli di Sesto San Giovanni, che nel 2010 si presentò spontaneamente dai pm milanesi per raccontare di essere stato vittima di soprusi da parte degli amministratori locali di Sesto San Giovanni.

Secondo l'accusa, Penati aveva intascato soldi in cambio di agevolazioni sul rilascio di alcune concessioni o per impostare, secondo determinati criteri, il Piano di governo del territorio ( Pgt) in relazione alle due aree dove una volta sorgevano la Falck e la Ercole Marelli. Una tesi bocciata sonoramente dai giudici, secondo cui le indagini sarebbero state «lacunose e superficiali». Per i pubblici ministeri, invece, a provocare quella debacle giudiziaria sarebbe stata la prescrizione, che avrebbe «sfasciato l’indagine», facendo cadere l’accusa di concussione nei confronti di Penati. «Mi riprendo la vita», aveva giurato quel 28 settembre dopo la lettura della sentenza, pur annunciando di voler rinunciare alla prescrizione.

L’istanza, però, non venne mai formalizzata, salvo poi presentare ricorso in Cassazione per poter essere giudicato nel merito. Una richiesta respinta dai giudici, secondo cui sarebbe stato Penati stesso a decidere di non farsi processare.

L’ultimo colpo di coda giudiziario è arrivato a luglio scorso, quando la Corte dei Conti lo ha condannato in appello, dopo un’assoluzione in primo grado, a risarcire 19,8 milioni per il danno erariale causato alla Regione Lombardia per l’acquisto, da parte della Provincia di Milano, del 15 per cento delle azioni della Milano - Serravalle dal gruppo Gavio, una compravendita portata a termine con con una sopravvalutazione del valore delle azioni.

«Condannare una persona normale - io sono un insegnante in pensione - a risarcire 20 milioni di euro è un assurdo, credo mai visto nella storia della magistratura contabile. Quale cittadino si avventurerà a candidarsi a guidare una comunità con una spada di Damocle del genere sulla testa? - aveva commentato - Sentenze così intimidiscono chi si occupa di pubbliche amministrazioni, che al contrario dovrebbe essere una vocazione incentivata, perché è la quintessenza della nostra Costituzione democratica».

Dopo la condanna, Penati aveva dunque confessato di avere un cancro. «Nonostante una diagnosi dura ho fiducia nei medici che mi curano - aveva aggiunto Certo, sentenze ingiuste ed irragionevoli sono colpi durissimi da parare». Era, dunque, comunque ottimista. «Sono convinto che le cure, che mi danno tanta sofferenza, avranno ragione delle lungaggini della giustizia aveva affermato - e mi consentiranno di vedere riconosciuta la mia piena innocenza anche sul piano della giustizia contabile, dopo che quella penale mi ha già riconosciuto innocente».

Una lunga vicenda giudiziaria che aveva contato due assoluzioni al tribunale di Monza e una in appello a Milano, che lo aveva sfibrato non soltanto per gli anni trascorsi in tribunale, ma anche e soprattutto per il processo mediatico, le cui «stigmate», aveva sottolineato, «rimangono indelebili», nonostante l’assoluzione. Un processo «sommario avvenuto a tambur battente su tv, giornali e sui social. In ogni caso ho sempre fiducia nella giustizia, ma come diceva Giulio Andreotti bisogna avere vita lunga per affrontare un processo in Italia», aveva aggiunto.

Dopo l’annuncio della morte, i figli Simone e Ilaria hanno chiesto riserbo e rispetto della volontà dell’ex sindaco di andarsene «senza notizia e senza clamore», con funerali in forma strettamente privata, per suo stesso volere. «Non è il momento di giudizi politici e non voglio ricordare il suo profilo istituzionale - ha commentato il sindaco di Milano, Beppe Sala, su Twitter - Per me è stato solo un amico a cui ho voluto bene e che ho accompagnato nell’ultima, dolorosa, fase della sua non banale vita». E dopo averlo abbandonato, il Pd si stringe attorno al dolore per la scomparsa di un «progressista», un uomo «di grande coraggio e valore», che ha «sofferto con dignità», trovandosi a combattere, oltre che con la malattia, con la giustizia e i suoi tempi.