Le storie dei sofferenti psichiatrici tendono a essere dimenticate, anche perché spesso sono tristi e disperate, e proprio per questo vengono facilmente rimosse. Mentre invece dovrebbero indurre a riflettere e confrontarsi, a volte anche con sé stessi.

È terminato pochi giorni fa presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere un processo per omicidio volontario avvenuto nel 2010 nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa, dove erano imputati quattro detenuti/ internati responsabili di avere massacrato di botte fino ad ucciderlo un altro internato rinchiuso nella stessa cella dei suoi assassini. La vittima si chiamava Seiano Cibati.

Seiano Cibati era un omino quarantenne invecchiato in fretta, clinicamente definito “oligofrenico e mutacico“ nel senso che partecipava poco a quello che gli succedeva intorno , e soprattutto non parlava. Non perché non avesse la voce, ma la usava poco, e in genere quando doveva timidamente incazzarsi ad ogni proroga della sua permanenza in Ospedale Psichiatrico Giudiziario: sarebbe dovuto rimanere lì perché responsabile di un reato di poco conto e per una antica schizofrenia autistica, ma le continue proroghe dei due anni a cui era stato inizialmente condannato si protraevano da quasi un decennio a causa di impossibilità di accoglienza esterna.

A quell’epoca funzionava così, e l’ingiustizia a cui Seiano doveva sottostare amplificava una forma di ritiro da cui era difficile tirarlo fuori. Poi riuscì a partecipare a un laboratorio teatrale nell’istituto aversano tenuto da due straordinari operatori/ teatranti, Trono e Gesualdi di Teatringestazione, interpretando un ruolo in una rivisitazione del Caino di Byron dove doveva muoversi poco e parlare mai.

Quando rappresentarono in pubblico lo spettacolo al Teatro Mercadante di Napoli – era appunto il 2010 - egli fu attento e presente nella rappresentazione dove la sua partecipazione era fondamentale, nonostante le limitazioni del suo stato. E alla fine dello spettacolo, sugli applausi di un pubblico entusiasta e commosso, si staccò dal gruppo degli altri internati/ attori e, sul proscenio, urlò a gran voce il suo nome. Cibati Seiano. C’era anche lui. Era il 26 settembre 2010.

Quella stessa sera, rientrando nell’istituto e nella sua cella Seiano probabilmente era contento: la gratificazione della rappresentazione, gli applausi e i sorrisi, erano diventati il riconoscimento del suo esserci e l’inizio di una diversa considerazione di sé. Nella cella erano in sette e quattro di loro, più delinquenti che malati di mente, avevano però deciso di dargli una lezione perché, non si sa come, si era sparsa la voce ( falsa) che Seiano fosse un pedofilo.

E, secondo la regola del carcere come all’epoca quel luogo era diventato, lo massacrarono di botte, fino a mandarlo in coma. Resistette qualche giorno in sala di rianimazione e poi morì, scomparendo così come era venuto. Il processo ai quattro aggressori, si diceva, è terminato pochissimi giorni fa, e ha riconosciuto i due detenuti imputati ( gli altri due nel frattempo erano deceduti) assolti dai fatti contestati perché gli unici due testimoni del pestaggio, gli altri occupanti della stanza, sono stati ritenuti incapaci di intendere e volere e quindi non credibili a rendere testimonianza. Straordinarimente dal processo erano scomparsi come imputati quelli che istituzionalmente avrebbero dovuto vigilare sulla sua integrità e che, con la loro assenza, avevano reso possibile l’omicidio.

Seiano Cibati se ne è andato così, con la stessa placida incazzatura con cui aveva affrontato la vita, da matto, ucciso da altri matti, non tutelato per l’assenza delle istituzioni e privato della giustizia a causa della non credibilità di altri matti ancora. La giustizia è eguale per tutti, si dice. Per Seiano Cibati lo è stata un po’ meno.

* Psichiatra