La sentenza della Consulta sul suicidio assistito, un reato che si è ritenuto in casi particolari “non punibile”, rischia di aprire, come era facilmente prevedibile, un vaso di Pandora. Le polemiche e le prese di posizione sui temi controversi e delicatissimi della bioetica e della biopolitica, da un po’ di tempo assopite, rischiano di riprendere vigore in un Paese come il nostro che fra l’altro ha già vissuto, nei lunghi anni della sua esistenza come Stato Nazione, una divisiva lotta fra laici e cattolici. Non è un bene, soprattutto in un’ottica liberale. Decisioni così eticamente sensibili dovrebbero essere infatti relegate il più possibile nella sfera privata dei singoli, e nel rapporto etico che normalmente si in- staura fra loro. La politica dovrebbe starsene fuori, delimitando solo una cornice entro cui i casi specifici possano poi trovare una soluzione extragiuridica. Quelle bioetiche non sono questioni di guelfi e ghibellini. E bisognerebbe stare lontani anche solo dalla parvenza di uno “stato etico”.

In attesa che maturi questa sensibilità, è possibile però fare qualche osservazione sul caso in questione. Si può disubbidire a una legge dello Stato (sempre che la sentenza della Consulta sia recepita dal legislatore)? Ci si può appellare al codice deontologico come ha fatto il presidente dell’ordine dei medici di Roma e rendersi indisponibili ad ogni operazione di accompagnamento alla morte? Io direi di sì, ma ad alcune condizioni. Prima di tutto, io avrei usato parole meno offensive verso quelle che comunque sono le istituzioni di una Repubblica democratica. Non avrei detto che il “codice deontologico” è “superiore” ad una direttiva della Consulta, ma che la morale va anteposta in alcuni e limitatissimi casi alle leggi positive. Le quali, per il resto, vanno sempre rigorosamente rispettate. E’ a ben vedere, quello che qui si pone, il problema classico che si presentò ad Antigone: un evidente conflitto di valori fra le leggi dello Stato e quelle “naturali” che bisogna risolvere con sagacia e buon senso. Elementi che purtroppo mancano in un dibattito pubblico convulso e molto mediatizzato quale è quello odierno.

Non si tratta di essere giusnaturalisti e credere nell’esistenza di “diritti umani” o “leggi naturali” immutabili nel tempo e non discutibili. Ma sul principio della “sacralità della vita” credo ci sia poco da discutere, così come su quello che assegna allo Stato il compito di proteggere il diritto alla vita e non quello a morire. Anche se poi è da ammettere che in molti casi è controverso capire ciò che effettivamente preservi la vita e cosa sia quella che, con termine a me non simpatico perché vago, si definisce la sua “dignità”. Questa accortezza ermeneutica a maggior ragione dovrebbe essere propria di chi si trova a vivere in ordinamenti come il nostro che prevedono l’obiezione di coscienza dei medici.

C’è però un altro elemento da considerare: la morale è sempre individuale e dovrebbe essere il singolo medico a rispondere, nella propria autonomia, alla propria coscienza e delle proprie azioni. Cosa che altresì stride con prese di posizioni che vorrebbero parlare in nome di un’intera categoria. A volte si può avere anche buone ragioni sostanziali dalla propria parte ma passare automaticamente dalla parte del torto per il tono usato e per la sgrammaticura istituzionale dei propri comportamenti.