Giuseppe Conte è nato l’ 8 agosto 1964 a Volturara Appula, un paesello del foggiano. Cittadina pugliese di avvoltoi, secondo una traduzione dal latino ricordata da Wikipedia. Un Matusalemme, il presidente del Consiglio pro tempore, rispetto a Camaleo, il suo alter ego. Nuovo che più nuovo non si può. Visto e considerato che viene alla luce, è proprio il caso di dirlo, nel pomeriggio del 20 agosto scorso al cospetto dell’assemblea di Palazzo Madama. Quando infilzò come un pollo allo spiedo un incredulo Matteo Salvini, che lo aveva considerato un personaggio all’apparenza scolorito e che invece si rivela un Conte sì: ma di Montecristo. Di null’altro desideroso che di vendicarsi.

Una vendetta consumata a freddo. Non pago di togliersi bei sassolini dalle scarpe, giganteggiò al Senato nella consapevolezza che la fama di Ammazzasalvini gli avrebbe spalancato tutte le porte. All’estero e in Italia, dove di punto in bianco divenne un beniamino. Non ultimo l’uscio di Palazzo Chigi. Per la seconda volta. E con una maggioranza tutt’affatto diversa. Con una Lega che esce e un Pd che entra. I santi in Paradiso, si sa, non guastano. E Camaleo, contrazione di camaleonte, ha coronato un sogno inespresso grazie a san Matteo – ma l’altro, Renzi – e a san Beppe Grillo. Mentre tutti gli altri non hanno capito ma si sono adeguati. Come il notaio di Renzo Arbore.

Lui, Camaleo, è nuovo. Nato appena ieri. Tutti gli altri, chi più chi meno, sono invece vecchi come il cucco.

Saranno pure usati sicuri, come ci assicura il desaparecido Pier Luigi Bersani. Saranno pure fior di professionisti della politica. Eppure, uno dopo l’altro, Orazio ha ragione dei Curiazi. Con le cattive o, più spesso, con le buone. Da quel perfetto Camaleo che è.

Invitato alla festa dei rossoantichi di Leu, dice che lui è uomo di sinistra. E Leu non se la passa un granché bene. Massimo D’Alema sopravvive più che altro perché ossessivamente evocato di continuo da Renzi, con il quale si guardano non negli occhi ma nelle rispettive carotidi. E Laura Boldrini – temendo la maledizione che si è abbattuta su molti ex presidenti della Camera, da Fausto Berinotti a Gianfranco Fini, condannati all’oblio – ha bussato alla porta del Pd. Che l’ha aperta. Il Pd, se non considera Camaleo uno dei suoi, poco ci manca.

Ma Nicola Zingaretti ha le sue ambasce. Durante la crisi di governo l’elefante piddino è stato trainato dalla volpe Renzi. E il suo segretario maneggia come può la carota dell’ecumenismo e il bastone pronto a colpire gli ex renziani del partito sospettati di essere cavalli di Troia manovrati dal senatore di Scandicci. Il quale, dopo aver furoreggiato, si trova in mano un partitino dall’incerto futuro. Il referendum costituzionale respinto è stato la sua Elba.

Il timore di un suo insuccesso politico – napoleonicamente parlando, noblesse oblige – potrebbe rivelarsi la sua Sant’Elena. O, se più vi piace, la sua Santa Maria Elena, prontamente nominata capogruppo di “Italia viva”. Ma da Renzi c’è sempre da aspettarsi un colpo di coda. Dopo aver sponsorizzato Camaleo, potrebbe – more solito – tirargli un tiro mancino e affondare la compagine ministeriale.

Non se la passa meglio Luigi Di Maio. A ogni elezione ha una decrescita infelice. Ha ottenuto come premio di consolazione la Farnesina, che usa come sede del partito.

Un guscio vuoto perché a contare sono il Quirinale e Palazzo Chigi. E ogni volta che va all’estero deve guardarsi le spalle perché i Cinquestelle sono in fermento e a rischio di scissione. Dulcis in fundo, la pugnace Giorgia Meloni, la cui fortuna nei sondaggi dipende dalle disgrazie altrui. Si è astenuta sulla mozione di fiducia al Conte 1, un po’ per non distaccarsi dal Capitano leghista e un po’ perché temeva che il governo durasse per chissà quanto tempo. Invitata da Camaleo durante le recenti consultazioni, ha preferito mandare i suoi cari. Ma poi l’ha invitato alla festa del partito per dirne male il giorno dopo. «Un perfetto maggiordomo in guanti bianchi» per Francia e Germania.

Appena giunto alla festa, Camaleo aveva detto alla Meloni: «Pensavi che non venissi, ma allora non mi conosci». Una bella lezione di stile. Fatto sta, per dirla con Leo Longanesi, che “sbagliando non s’impara ma s’impera”.

Con tutti “questi qua”, dal primo all’ultimo, Camaleo non sfigura affatto.

Ci pare quasi uno statista che gioca con le parole, non ha mai l’aria dell’attaccabrighe e, come il mitico Gianni Letta, metterebbe d’accordo perfino due seggiole.

Chiamatelo Camaleo, chiamatelo Zelig. Ma, viene da dire, evviva la differenza. Non a caso Domineddio, dall’alto della sua bontà, volle creare un essere a propria immagine e somiglianza. E mise al mondo un professore universitario.