«Meglio di una partita di calcio», fu il commento di tanti davanti alla tv dopo aver seguito alla televisione la seduta del Senato nella quale Conte ha trattato il suo ministro degli interni così male da fargli confondere i fogli della replica che aveva preparato.

Guy Debord, geniale leader situazionista, parlava di “società dello spettacolo” già negli anni Sessanta, ma non era arrivato a immaginare la “politica spettacolo”, che ci viene offerta da qualche mese a questa parte.

La derivazione diretta di quanto accade proviene dalla neo- televisione, da quella forma di comunicazione che non è più collegata a palisesti o a orari di proposta ma prevede invece un rapporto diretto tra pubblico e specifici programmi, che vengono somministrati in ogni momento e on demand.

I campioni del genere sono le serie e gli show. Ambedue si basano sulla necessità di continui colpi di scena, capaci di tenere incollato allo schermo un pubblico che non appoggia mai il telecomando, ma è invece sempre pronto a cambiare programma. Non a spegnere il video.

E la politica sembra aver accolto la sfida. Se a Master Chef troviamo una formula chiusa che prevede l’eliminazione di un concorrente al termine di ogni segmento del programma. Quasi per gemmazione, immediatamente si crea un meccanismo analogo nel governo. Salvini, candidato al titolo di Masterchef per quest’anno, commette un grave errore, paragonabile a non accendere in tempo il fuoco per la cottura della pasta o di dimenticare il sale, e viene eliminato.

Allo stesso modo Renzi si preoccupa di produrre colpi di scena in continuazione. Ora si fa il governo con il M5S, ora la scissione del PD, domani chissà che altro. Contro la Bestia che scrive i tweet per Salvini, un parco di sceneggiatori elabora la complessa trama al termine della quale l’ex segretario del Pd dovrebbe, si immagina, tornare al potere alla testa di un nuovo partito.

Mentre alcuni si occupano dello spettacolo, altri fanno la politica. Che ai giorni nostri significa conservare un sistema in grado di pagare le pensioni, offrire prestazioni sanitarie accettabili, garantire una rete di trasporti per alcuni aspetti molto efficiente, un complesso scolastico ancora capace di accompagnare i giovani sulle soglie del mercato del lavoro, la cui difesa non va comunque trascurata.

L’impressione generale è che la politica del mangiare pop corn coinvolga larga parte dell’apparato, che vive l’esperienza parlamentare e i suoi dintorni come un grande palcoscenico. Nella speranza che questo attiri nuovi elettori, che restano la materia prima, da tempo un calo progressivo, del sistema democratico che tutti sostiene.

Dal Quirinale si osserva, domandandosi quando arriverà qualcuno a dare una mano nello sbrigare il lavoro vero.