Roberto Calderoli è un dentista degenere. Per amore della politica ha abbandonato alle ortiche il camice bianco di chirurgo maxillo- facciale. E, ipso facto, è diventato la pecora nera della famiglia. Una famiglia, manco a dirlo, di dentisti talmente rinomati che in quel di Bergamo, dove risiedono, sono considerati come la Galbani della pubblicità. Vogliono dire fiducia. Calderoli, Dorando Petri referendario che rischia la squalifica della Consulta

Con il tempo, però, il “rinnegato” Calderoli si è riconciliato con i suoi familiari. Perché, sveglio com’è, in politica ben presto si è fatto un nome. A scaldare la poltrona di turno, non ci ha pensato neppure per un istante. E’ stato ministro per le Riforme costituzionali. Ma la sua legge elettorale è stato lui stesso a squalificarla come porcata. E la sua riforma costituzionale ha avuto la stessa fortuna di quella di Matteo Renzi, il Bullo fiorentino dall’ego smisurato: è stata bellamente bocciata al referendum confermativo. Ministro per la semplificazione normativa, ha usato in una caserma romana il lanciafiamme per ridurre in cenere le leggi abrogate. Con il rischio di andare a fuoco lui stesso.

Più fortunato è stato come vicepresidente del Senato tuttora in carica. Ormai ha una tale confidenza con le procedure parlamentari, che si alimentano di prassi consuetudini e convenzioni, da meritare una laurea honoris causa in diritto parlamentare. E se ancora non l’ha ricevuta è perché chi gliela dovrebbe dare teme la concorrenza di un parvenu. Del resto, i professori universitari, si sa, sono uomini come tutti gli altri, ma loro non lo sanno. Una sorta di leghista pannelliano, Calderoli. Difatti usa le stesse tattiche del leader radicale.

All’occorrenza usa l’arma dell’ostruzionismo a oltranza per incutere un po’ di timor di Dio alla maggioranza e al governo. E adesso si è innamorato del referendum su una legge elettorale, il Rosatellum, che può essere considerata – per usare il lessico caro all’ex dentista – un’ennesima porcata. Ma che maggioranza e governo vorrebbero ancor più peggiorare con una proporzionale integrale per non far vincere il centrodestra ( se ci sei, batti un colpo!) nei collegi uninominali e con una bella clausola di sbarramento del cinque per cento per strangolare nella culla Renzi e i suoi pochi cari.

Il referendum abrogativo è previsto dall’articolo 75 della Costituzione e disciplinato nei dettagli da una legge del 1970. La numero 352, per la precisione. Riveduta e corretta nel 1978 e nel 1987. L’abrogazione può riguardare un’intera legge o solo una parte di essa. Una sola parte di essa, si badi. E la fantasia italica – come gli chassepot di Napoleone III, le petit – ha fatto miracoli.

Basta cancellare tutta una serie di coriandoli normativi per ottenere una nuova legge pronta all’uso. Così è accaduto con il referendum del 1993 sulla legge elettorale del Senato, il cui successo portò all’approvazione parlamentare del Mattarellum, dal nome del suo artefice Sergio Mattarella. Così Calderoli, dall’alto delle competenze giuridiche acquisite nel corso degli anni, ha disegnato un ingegnoso referendum che si propone di cancellare i due terzi di proporzionale del Rosatellum allo scopo di rendere la legge totalmente maggioritaria con collegi uninominali a un turno. Come il sistema inglese.

Il guaio è che il diavolo fabbrica le pentole ma non i coperchi. In prossimità del traguardo forse sarà stato pure aiutato da costituzionalisti provetti. Ma con ogni probabilità verrà squalificato dalla Corte costituzionale con l’argomento che il ritaglio referendario non consente alla legge maggioritaria residuale di essere immediatamente applicabile. E questo perché il governo, ai sensi della legge n. 51 di quest’anno, dovrebbe pur sempre previa delega ritagliare i collegi.

Ecco che Calderoli può essere paragonato al maratoneta Dorando Pietri, che ai giochi olimpici di Londra del 1908 arrivò sì primo. Ma grazie al sostegno dei giudici di gara perché a pochi metri dal traguardo non si reggeva più in piedi e crollava di continuo. E per questo aiuto fu squalificato e perse la medaglia d’oro. In compenso, la sua fama è arrivata fino ai tempi nostri.

Ulteriore fama di sommo leguleio a Calderoli non potrà dispiacere. Ma fino a un certo punto. Perché, per quel poco che lo conosco, il barone de Coubertin gli sta sullo stomaco. E già, perché per un politico di lungo corso come lui, l’importante non è gareggiare. Macché. L’importante è vincere. Vorrà dire che sarà per un’altra volta.