Il dualismo è antico. Di un’altra era politica, si direbbe. Se non fosse che si tratta di un paio d’anni fa. Matteo Renzi e Andrea Orlando sono lo yin e lo yang della giustizia di centrosinistra. Opposti rovesciati, in perenne biunivoca contraddizione. Più fresco di ispirazione garantista il primo, ma meno scrupoloso nelle schermaglie coi magistrati il secondo. A dividerli c’è una faglia grande quanto il Grand Canyon della politica giudiziaria: la riforma del carcere.

Quando a febbraio 2018 Orlando era sul punto di ottenerne, in qualità di guardasigilli, la definitiva emanazione in Consiglio dei ministri ( trattavasi di decreti delegati già sottoposti al Parlamento) l’allora segretario del Pd Renzi lasciò intendere che non era proprio il caso di essere così zelanti, se non si voleva compromettere l’esito delle Politiche. Poi il 4 marzo l’esito si rivelò ugualmente amaro per il Pd, ma questa è un’altra storia.

Assai più che le imperscrutabili venature del voto segreto che due giorni fa ha evitato l’arresto del deputato Sozzani, al di là dell’episodio comunque minimizzato dagli stessi 5 Stelle, il vero dilemma sulla giustizia è ora nella dialettica Orlando- Renzi. Si è spostato l’asse, non più collocato sulla direttrice, controversa ma aperta, tra lo stesso Orlando e il suo successore Alfonso Bonafede. Il vero crocevia è destinato a trasferirsi nel rimpallo di rivendicazioni garantiste tutto interno all’ex casa comune democratica.

Quella faglia solcata dal naufragio sul carcere è costellata dalle continue stilettate che Renzi inflisse, da premier, all’allora ministro della Giustizia. Il “suo” ministro, che però Renzi non si trattenne dal bollare come «democristiano». Adesso come si tradurrà quel marchio affibbiato a Orlando? Rischia di trasfigurare in nuove accuse di eccessivo trattativismo.

Accuse che precipiteranno su via Arenula, dove con ogni probabilità continueranno a celebrarsi i vertici sulla giustizia tra Orlando e Bonafede. In concreto né Renzi né alcuno dei suoi parlamentari daranno del «democristiano» a Orlando. Ma lo faranno per vie indirette. Con il contrappunto sulle singole questioni. A cominciare dalla prescrizione.

Un deputato che ha scelto di lasciare il Nazareno per costruire l’Italia viva con Renzi, l’ex sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, ha spiegato alcuni giorni fa al Dubbio che l’obiettivo minimo da cogliere sulla prescrizione dovrebbe consistere nel limitarne lo stop alle sole sentenze di condanna. Una riduzione del danno: «Come si fa a sostenere che chi è stato assolto può restare esposto al rischio di essere sotto processo a tempo indeterminato?». S

empre al nostro giornale, un deputato che ha scelto invece di restare con Zingaretti e Orlando, il capogruppo dem in commissione Giustizia Alfredo Bazoli, ha visto in quell’ipotesi «una soluzione abborracciata», per quanto «migliore dello status quo». Il punto è che anche quella rimodulazione, davvero insufficiente rispetto alla tenuta delle garanzie, sarà comunque difficile da cogliere. E se il Pd non dovesse convincere i 5 Stelle neppure a una così parziale rettifica della prescrizione, i renziani non mancherebbero di farsi sentire.

Lo stesso Bazoli si augura, sempre nell’intervista al Dubbio, che sulla giustizia Italia viva sia d’aiuto al Pd anziché favorire spaccature. Non è da escludere che l’effetto auspicato dal deputato dem si realizzi: è chiaro che le verosimili più marcate «sottolineature» dei renziani su alcuni «punti specifici» potrebbero in realtà agevolare i dem, e dunque Orlando, nell’allontanare la bilancia della politica giudiziaria dall’integralismo pentastellato.

Ma è anche vero che la dialettica sarà complessa, sfibrante. Dalle intercettazioni al potere dei procuratori capo, dal pre- sorteggio per eleggere i togati del Csm alle preclusioni nell’accesso alle pene alternative per i rei di corruzione. Una dinamica tripartita, che si preannuncia di difficilissima realizzazione. Ma che potrebbe trovare uno dei rari terreni di pacifica convergenza grazie all’altro protagonista della giurisdizione, l’avvocatura.

Sull’equo compenso per le professioni — a cominciare da quella forense — e sul riconoscimento in Costituzione del ruolo dell’avvocato, sono tutti d’accordo: Bonafede, Orlando e Renzi. E forse, quando quella naturale sintonia si manifesterà in Parlamento, se ne riuscirà a dedurre che neppure Renzi e i 5 Stelle sono così lontani, sulla percezione dei diritti come pilastro irrinunciabile della democrazia.