Giornata di consultazioni online per gli attivisti M5S umbri, chiamati a scegliere su Rousseau i candidati alle Regionali del 27 ottobre. Le urne virtuali saranno aperte dalle 10 alle 19 e ogni iscritto avrà a disposizione fino a due preferenze da mandare in lista. Nulla di nuovo per i militanti pentastellati, abituati da tempo a scegliere i propri portavoce tramite “concorso” sul web, se non fosse che stavolta in ballo non c’è solo un posto da consigliere regionale ma anche il profilo più adatto a vestire i panni dell’alleato del Pd.

Già, perché le Regionali umbre potrebbero essere il primo banco di prova di un’alleanza organica tra dem e cinquestelle. Non un’intesa di Palazzo, costruita dopo il voto e, soprattutto, dopo l’avventura finita male con la Lega, ma una vera e propria coalizione elettorale. Se andasse in porto sarebbe la definitiva trasformazione del Movimento 5 Stelle in partito. Un percorso iniziato nel 2009 e lentamente portato a compimento dal capo politico Luigi Di Maio. Che pezzo dopo pezzo ha smantellato tutti i tabù edificati dieci anni fa da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio nella speranza di far nascere l’homo novus grillinus.

E visto che i cittadini al potere non sono necessariamente migliori della classe politica che esprimono, tanto vale trasformarsi in professionisti della mediazione e tentare di portare a casa risultati.

Sembra passato un secolo da quando il “garante” ribadiva sul sacro Blog: «Il MoVimento 5 Stelle non fa alleanze elettorali con partiti o liste, quindi per natura non può entrare in una lista con partitini in via di estinzione o camuffati da liste civiche. Il M5S fa accordi con i cittadini che vivono quotidianamente il territorio, non con i politicanti locali».

Eppure son passati solo 5 anni dalla pubblicazione di questo post che proseguiva con una scomunica: «Chi, pur occupando un posto nelle istituzioni in quanto eletto con il M5S, cambia idea e afferma che “l’unica strada” sia “una grande lista civica trasversale” e si adopera per raggiungere questo obiettivo è libero di farlo, di assumersene le responsabilità e di lasciare il suo posto a chi intende portare avanti il programma del M5S». Da allora però son cambiati più volte statuti, organismi e ragioni sociali del Movimento.

Per strada sono stati abbandonati parecchi orpelli: il principio assoluto dell’orizzontalità, sostituito da un capo politico che può scegliere direttamente persino i candidati da inserire nei collegi uninominali e la creazione di apparati dirigenti intermedi; il vincolo dei due mandati, per ora decaduto solo per gli amministratori locali; il divieto totale di alleanze.

Per far digerire quest’ultimo punto ai militanti, già durante la campagna elettorale per le Politiche, Di Maio ripeteva dalle piazze: «Se non dovessimo farcela, la sera delle elezioni faremo un appello pubblico alle altre forze politiche che sono entrate in Parlamento presentando il nostro programma e la nostra squadra. E governeremo con chi ci sta».

C’è stata la Lega, in prima battuta, ma a quel punto il totem dell’indisponibilità a mischiarsi era già crollato. È stato un gioco da ragazzi, per ilcapo politico, convincere gli attivisti a cambiare cavallo e a sdoganare su Rousseau le alleanze anche a livello locale. Ma solo con «liste civiche», era il patto evidentemente superato dagli eventi, Salvini ha staccato la spina e in Parlamento è nata una nuova maggioranza che ha una sola possibilità di sopravvivere nel paese all’avanzata del Carroccio: opporsi al centrodestra anche nelle amministrazioni locali.

Lo stratagemma inventato da Di Maio per aggirare l’ostacolo degli statuti, con la benedizione del Pd, è parecchio ingegnoso: ok all’intesa coi dem purché il candidato governatore, e solo lui, sia un civico. La bagarre sui nomi può avere inizio. Ma la mutazione politica è compiuta. Il Movimento non è più «biodegradabile», è diventato a tutti gli effetti un partito.