Chi ci ha parlato descrive un Matteo Renzi in pieno slancio da esaltazione. C’è chi giura di avergli sentito dire: «Farò una renzata». Lui conta i parlamentari da far passare al gruppo misto e conta le ore che lo separano dall’annuncio: lo scisma è imminente e non è più una questione di se, ma di quando. I più allarmisti scommettono che lo darà oggi nello studio di Bruno Vespa, a Porta a Porta, altri invece continuano a pensare che il momento più probabile sia la decima Leopolda - la culla del renzismo - che si terrà dal 18 al 20 di ottobre.

La prima ipotesi porta con sè l’eco ridondante del berlusconismo, la seconda sembra invece troppo lontana per il tasso di fibrillazione del gruppi parlamentari. I pellegrini dietro al condottiero Matteo Renzi, infatti, trasmigrerebbero al gruppo misto e questo provocherebbe un piccolo terremoto, a partire dal probabile cambio dei capogruppo.

Partendo dai numeri, il primo interrogativo è chi mai sarebbe disposto al salto nel buio e le defezioni sono molte. Il sindaco di Firenze, Dario Nardella, per esempio. «Non posso che dire nuovamente agli amici del Pd che vogliono lasciare il partito di pensarci bene, perchè abbiamo bisogno di un partito forte e plurale», ha detto il primo cittadino toscano, e il suo no a Renzi è giustificato anche dal fatto che l’idea dell’ex premier è quella di fare un movimento civico, una sorta di partito d’opinione, che quindi non ha nel Dna di radicarsi territorialmente in modo classico o di competere necessariamente alle elezioni locali, ma di puntare di volta in volta sulla dinamicità dei comitati civici ( se ne contano già un centinaio in giro per l’Italia).

Altro no che pesa è quello di Alessia Morani, neo sottosegretaria al Mise, che si limita a un «Mi auguro davvero che Matteo non lo faccia, però io rimarrò nel Pd». Nemmeno un renziano storico come Stefano Ceccanti seguirà l’impresa, ma la defezione più stupefacente è quella di Luca Lotti. Nemmeno l’ex braccio destro di Renzi e petalo nobile del giglio magico sembra intenzionato a fare le valige e con lui nel Pd rimarrebbe anche il grosso di Base riformista ( la corrente della minoranza dem che conta 48 deputati e 28 senatori), compreso il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. In partenza, invece, è dato il radicale Roberto Giachetti, che con la sua corrente Sempre avanti conta 15 deputati e 5 senatori.

L’operazione, tuttavia, potrebbe essere più complicata di così. Renzi punterebbe a non perdere un pied- à- terre nel Pd, lasciando dunque al suo posto il capogruppo al Senato, Andrea Marcucci. L’obiettivo sarebbe quello di “cannibalizzare” il gruppo misto, dove andrebbero ad accomodarsi i renziani con quattro senatori e almeno una trentina di deputati tra i quali Ettore Rosato e Ivan Scalfarotto, che però rimanga in costante contatto con l’ex partito e soprattutto col governo, visto che ne deterrebbe di fatto la golden share per la maggioranza nelle Camere.

In questo modo, Renzi tornerebbe pienamente al tavolo delle trattative con Conte, insieme a Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio. La prospettiva, infatti, è di andare a parlare quanto prima col premier, per rassicurarlo sul fatto che non è in corso una divorzio, ma una separazione consensuale che non metterà in alcun modo in crisi l’esecutivo.

Ma, col nuovo assetto, Renzi avrebbe finalmente le mani libere a un partito da cui sente di aver subito solo sgarbi. Per questo i detrattori - e nel Pd sono molti, anche se si moltiplicano le richieste di unità - ritengono che dietro la scelta non ci sia altro che un delirio dell’ego. Una sorta di dichiarazione di esistenza di un leader che ha dato la mano di carte vincente per formare il governo ma poi si è ritrovato fuori dai giochi.

Secondo Renzi, invece, l’ispirazione ideale è l’En Marche di Emanuel Macron, con l’obiettivo di recuperare almeno in parte la vocazione movimentista tanto cara all’ex premier. Il nome è ancora incerto ( piace l’Italia del sì, ma forse ci sarà la parola “crescita”), ma le parole chiave sono l’impianto “liberal- democratico”, “riformista e riformatrice”, “moderato nei toni, ma dai contenuti e dai programmi radicali”.

Insomma, un partito che guarda al centro più che a sinistra e che punta a scrollarsi di dosso le vecchie impalcature novecentesche. Le idee volano, ma i piedi sono ben piantati a terra ( e in Parlamento): con questa operazione, Renzi diventerà nei fatti il terzo pilastro del governo e ha già almeno un portabandiera al governo con Teresa Bellanova ( con Guerini i rapporti si sarebbero raffreddati).

Quanto ai fondi che nutriranno la nuova creatura, le erogazioni liberali certificate ai comitati Azione Civile Ritorno al futuro sono 20mila a giugno, 260 mila a luglio e 220 mila ad agosto: oltre ai parlamentari, tra i donatori spicca Daniele Ferrero ( ad di Venchi) con 100mila euro, Davide Serra ( ad del fondo Algebris) con 90mila ma anche molte aziende. Oltre all’impalcatura ideale, dunque, c’è anche il grano. Per cominciare davvero, però, manca ancora il colpo di teatro e Renzi ( come Berlusconi) ha abituato a grandi performance.