La “discontinuità” c'è tutta e c'è davvero. Non tanto e non solo nei nomi e nei programmi quanto nella struttura stessa del governo nascente, negli equilibri e nei rapporti di forza al suo interno. Per poco più di un anno i commentatori hanno segnalato ogni giorno quanto facile e produttiva in termini di consenso fosse nell'esecutivo gialloverde la posizione della Lega, con quel ministero degli Interni che pareva fatto apposta per venir trasformato nel più alto pulpito per la propaganda del capo, a fronte degli spinosi compiti che si era accollato l’M5S, con in mano le leve dei ministero sociali, quelli dove i risultati contano e si vedono immediatamente.

Era almeno in parte vero. Nel nuovo governo i 5S hanno di nuovo optato per i ministeri sociali, occupandoli a distesa con la Sanità del LeU Speranza per unica eccezione, mentre il Pd ha assunto incarico tutti i dicasteri delegati ai rapporti con le centrali di potere e le élites italiane e internazionali. Ma la situazione si è capovolta. Il clima a dir poco positivo che tra questo governo e l'Europa, la fiducia a scatola chiusa dei mercati, assicurata dalla sola assenza di Salvini, regalano un’opportunità enorme ai pentastellati. Quella di incassare la maggior parte dei dividendi politici ricavati grazie a una disponibilità europea della quale nessun governo aveva mai goduto in pari misura, anche se non soprattutto grazie ai problemi dell'economia tedesca, potendo invece addossare l’eventuale responsabilità di ogni misura meno popolare ai paludati ministri targati Pd.

L’oggetto principale di quella propaganda saranno proprio gli elettori reali o potenziali del partito alleato. Le resistenze di Renzi all’accordo, prima che l'opportunismo suggerisse al senatore di Rignano di cambiare posizione in poche ore, non erano immotivate. Una volta “sdoganato” anche in quel mondo il Movimento, non può che irrobustirsi il richiamo di misure facilmente comprensibili per una base delusa da anni di spostamenti sociali del Pd verso la rappresentanza delle élites e dei ceto medio- alti invece che di quelli popolari o di ceto medio impoverito.

Se nella precedente maggioranza la Lega ha rapidamente vampirizzato i consensi dell’M5S non è affatto escluso che stavolta le cose vadano esattamente al contrario. Discontinuo più di come non si riesce a immaginare è anche il ruolo del premier. Costretto all'inizio nel ruolo scomodo del comprimario, Conte ha saputo cogliere l'occasione offerta dalla concentrazione dei suoi vice ed azionisti di maggioranza solo sulla propaganda.

L’avvocato, al contrario, ha fatto politica realizzando una sorta di piccolo capolavoro con lo spostamento dell'M5S, subìto più che deciso, nella nuova maggioranza europea. La crisi del governo gialloverde e l'ascesa del medesimo Conte, in ultima analisi, vengono proprio da quella mossa. Oggi Conte, mutato da anatroccolo in cigno della Provvidenza, ambisce a una sorta di comando reale sul “suo” governo. L'ostacolo, per Giuseppe Conte, non è e non sarà il Pd, che pare anzi propenso a delegargli in pieno la responsabilità di governo.

E’ un Di Maio che si è dimostrato molto meno malleabile del previsto e, proprio quando tutti lo davano per vicino a un precoce tramonto, si è impuntato per ottenere un ministero di primissimo piano, mantenere il doppio ruolo di capodelegazione e leader del Movimento che gli garantirà comunque massima visibilità, e strappare a Conte la scelta sul sottosegretario a palazzo Chigi. Con i suoi fedelissimi disseminati in tutti i ministeri e il proprio ruolo appena scalfito dal naufragio del vascello gialloverde Di Maio è il vero diarca in questo governo. La partita di potere sarà tutta in quella metà campo. Tra Conte e Di Maio ma anche tra Grillo, con Renzi vero regista dell'operazione che ha portato alla nascita del governo, e Di Maio, che ha contrastato la nascita del Conti bis più per evitare di incarnare lo scomodo ruolo della vittima sacrificale che per arrivare a elezioni che lo avrebbero sacrificato davvero.

In area Pd il governo porta il marchio proprio di Renzi. Su 9 ministri ne controlla 4 e ha sotto controllo la chiavetta dell'ossigeno del governo. La decisione di rinviare la riforma della legge elettorale alle ultime battute della legislatura serve proprio a garantire che né Renzi né i 5S, per i quali il passaggio al proporzionale è fondamentale, seppelliscano anzitempo il governo nato ieri.

Ma con di fronte un lasso di tempo così lungo, i tre anni che separano dalla scadenza naturale della legislatura, nessuna clausola di garanzia può dirsi sicura. Zingaretti, che in questa fase è il classico vaso di coccio, chiuso tra un M5S a cui il nuovo governo ha restituito l'iniziativa e il risorto Renzi, porta a casa il solo vero elemento di discontinuità rispetto non all'ultimo governo ma all'ultimo decennio e forse più di questo esecutivo: Roberto Gualtieri, un ministro dell'Economia politico per la prima volta dai tempi di Tremonti, che però era a sua volta anche lui quasi un tecnico. E' un elemento tanto discreto quanto determinante. Potrebbe siglare la fine della sudditanza dei governi alla pura logica dei conti e dei parametri. Ma per quanto riguarda i rapporti di forza non basterà a trarre il Pd di Zingaretti fuori dalla difficilissima situazione in cui si è cacciato.