Dal punto di vista strettamente giuridico, le baruffe sulla o sulle vicepresidenze del Consiglio sono state una tempesta in un bicchier d’acqua. La Costituzione non ne fa il minimo cenno.

E la legge sull’ordinamento della presidenza del Consiglio, cioè la legge 23 agosto 1988 n. 400, al riguardo dice poco o niente. Eppure si tratta di una disciplina minuta che reca le impronte digitali di Andrea Manzella. All’articolo 8 si limita a dire che il presidente del Consiglio può proporre al Consiglio dei ministri l’attribuzione ad uno o più ministri delle funzioni di vicepresidente del Consiglio.

E aggiunge che questi sostituisce il presidente del Consiglio nel caso di sua assenza o impedimento. Un titolo pressoché onorifico dalle funzioni imprecisate.

Dal punto di vista politico, certo, è tutto un altro paio di maniche. Il loro peso è direttamente proporzionale alla loro autorevolezza, alla consistenza e omogeneità del partito, alla carica ministeriale.

Ora, l’autorevolezza è come il coraggio di Don Abbondio: se uno non ce l’ha non se la può dare. E, a occhio e croce, non mi pare che circolino a piede libero dei Cavour, dei Depretis, dei Crispi, dei Giolitti, dei De Gasperi. Quanto ai partiti, stanno sulle montagne russe: oggi su e domani giù. O viceversa. E l’omogeneità è una rarità. Come sanno tra un sospiro e l’altro Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti, che debbono guardarsi dagli spifferi a ogni ora del giorno e della notte.

Mentre Matteo Salvini non sembrerebbe più messo bene come una volta. Semmai è la carica ministeriale che può avere qualche peso al riguardo. Eppure, per le vicepresidenze sono stati lì lì per mandare tutto a carte quarantotto.

Perché? La risposta più sensata è questa: per una questione di immagine, di faccia, di prestigio, che anche in politica hanno la loro brava importanza. Di Maio non intendeva cedere nella convinzione che altrimenti la sua presa sul partito sarebbe diminuita a vista d’occhio. Ma uno che pensa così è talmente malmesso da temere il peggio.

E allora, sospirava il capo politico pentastellato, se anche il Pd reclama per sé un vicepresidente, vorrà dire che ce ne saranno due. Zingareetti, a sua volta, diceva no e poi no.

Perché Giuseppe Conte è stato designato da Di Maio e ormai – a suo modo di vedere – può essere considerato organico al Movimento di Beppe Grillo, svegliatosi da un lungo sonno e voglioso di dire la sua.

Organico ai grillini? Conte non ha fatto mistero che non è così. A Zingaretti ha sussurrato all’orecchio che lui è sempre stato di centrosinistra. Una captatio benevolentiae? Sembrerebbe proprio di sì. Lo confermano quelle malelingue del Giglio magico. In una stagione, è vero, Conte ha avuto una qualche dimestichezza con Matteo Renzi. Quando era al culmine del suo potere. Ma poi, aggiungono sorridendo, se n’è allontanato.

La verità è che il presidente del Consiglio incaricato, ormai a un passo dal bis, non è organico a nessuno. Politicamente parlando, ha il sesso degli angeli e non sembra roso dal tarlo delle ideologie. Perciò, da buon professionista a contratto, può passare dal gialloverde al giallorosso senza patemi d’animo e senza vergogna. Sa che cos’è il potere. Lo ha subito per buona parte della precedente coalizione di governo. E adesso sta prendendo gusto a esercitarlo. E il Potere, con la P maiuscola, non ha colore. Si adatta camaleontescamente a ogni colore.

Non ha bisogno, Conte, d’indossare la casacca pentastellata. Perché ha già appoggi a non finire. In Europa, nel mondo, in Vaticano, tra i poteri forti, o presunti tali. E anche Mattarella ne dice bene perché, se non altro, hanno una grammatica istituzionale in comune. Ecco che ha detto un rotondo no all’ipotesi di uno o – che Iddio ce ne scampi – due vicepresidenti del Consiglio. Li ha sperimentati sulla propria pelle e adesso ne ha abbastanza.