Come Fregoli, Giuseppe Conte cambia abito. Con la disinvoltura del gran signore. Aveva, meschino, un doppiopetto a toppe gialloverdi. Talmente striminzito da impedirgli i movimenti. Fino a quando, a colpi di gomito ma senza dare troppo nell’occhio, è riuscito a stare nei panni con una punta d’incredulità. Di qui a poco – se il diavolo non ci metterà le corna, ma il diavolo qui e adesso dà l’impressione di non avere neppure gli occhi per piangere – indosserà finalmente un vestito come Dio comanda.

Un bel grigio che ha il difetto di stargli un po’ troppo precisino. Ma il vero guaio sta nella pochette. Tricolore. Ma non è il Tricolore che ci è caro fin dal 1848, a dispetto di quanto prevedeva lo Statuto albertino. Verde, bianco e rosso. Macché. E’ giallo, come i Cinque stelle. E’ rosso, come il Pd.

Un rosso acceso da quando Nicola Zingaretti ha vendicato la Ditta insediandosi alla segreteria del partito. E rosso antico, come i quattro gatti, ma forse meno, di Leu.Quel ridicolo doppiopetto a toppe, Conte lo ha vissuto come un incubo. Come un cilicio. Matteo Salvini lo considerava un intruso, uno che di politica – a suo insindacabile avviso – non capiva un’acca. E Luigi Di Maio lo giudicava un usurpatore.

Sissignori. Perché il capo politico ( si fa per dire) pentastellato aveva promesso alla sua mamma, e la mamma è sempre la mamma, d’insediarsi nella poltrona più ambita di Palazzo Chigi. E invece si è dovuto accontentare di uno strapuntino nel Palazzo più importante di Piazza Colonna. Ed ecco la vendetta dei due compari. Il vice dei vice lo hanno relegato in cucina, novello Cenerentolo, a pelar patate. Come Geppetto, a studiare il sesso delle formiche.

Un buono a nulla incapace di tutto. Mentre loro, improvvisatisi professionisti della politica, se ne sono stati nel salotto buono. Baciati, manco a dirlo, dalle luci della ribalta. Un palcoscenico al quale per nessuna ragione al mondo avrebbero rinunciato.Ma proprio qui è cominciato, per lor signori, l’inizio della fine. Perché un conto è il palcoscenico, vivacizzato dalle insuperabili gaffe di Luigino e dai proclami, degni di un imbonitore da fiere di paese, di Matteo.

E un conto è la politica, dove nessuno dei due ha particolarmente brillato. L’horror vacui ha dato non una ma addirittura due mani a Cenerentolo. Digiuni di politica estera e di lingue straniere, per non parlare della lingua di padre Dante per quanto concerne soprattutto i congiuntivi, i due consoli non hanno trovato di meglio che delegare l’intruso- usurpatore. E si sono tirati la zappa sui piedi. Per nulla sprovveduto, Conte si è fatto un nome fuori dai confini nazionali. Non potrà mai dire come Giulio Cesare il venni, vidi, vinsi. Questo no. Ma si è fatta una reputazione e, a poco a poco, l’ha fatta valere sul piano interno.

Il passo successivo l’ha compiuto, Conte, quando i suoi due vice hanno perso smalto. Luigino, perché a ogni elezione che Iddio ha mandato in terra ha perso voti in quantità industriali. Fino ad apparire, durante il tramestio che porterà al Conte bis, un morto che cammina. E Matteo 2, perché l’affare russo prima e poi il delirio di onnipotenza lo hanno perduto. Più loro andavano giù, più Conte – per dirla con la pubblicità di una nota marca di caffè – si tirava su.

Il colpo di teatro lo si è avuto nell’assemblea di Palazzo Madama. Conte ci è apparso un abile torero e Salvini un toro rassegnato al sacrificio. Si è detto che in quell’occasione Conte si è tolto parecchi sassolini dalle scarpe. No, non la penso così. Non si è fatto prendere dai risentimenti ma ha agito con una freddezza degna di un Giulio Andreotti. E mi auguro, direttore, che il tormentone agostano al quale hai dato meritoriamente l’avvio, con tante firme prestigiose, continui anche a settembre: Conte, chi è costui?

E magari si concluda con un aureo libriccino impreziosito da una introduzione, sono pronto a scommetterci, del signor presidente del Consiglio. Insomma, Conte deve aver pensato – quando si dice il paradosso – che se Salvini non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Perché nessuno come Salvini lo ha imposto, proprio lui, sugli altari. Ecco che è diventato santo subito. Per Donald Trump. Per Angela Merkel. Per Emmanuel Macron ( ma quello, con tutto il rispetto, è meglio perderlo che trovarlo). Insomma, ce lo invidiano all’estero.

E in Italia sono tutti per lui. Industriali. Sindacalisti. Cantanti. Firmatari di manifesti a getto continuo e tanto altro ancora. Un tripudio per Conte, l’ammazzasalvini. Ottenuto l’incarico da Mattarella, ieri dal Quirinale Conte ha fatto dichiarazioni chilometriche. Contravvenendo a una prassi consolidata. Quasi un programma di governo. Più che dire agl’italiani che lui di qui a poco sarà presidente del Consiglio, ha parlato per convincersene lui stesso.

Come gli ha raccomandato Sergio Mattarella. Che ancora una volta ha indicato la diritta via dal punto di vista costituzionale.La sua strada, però, sarà tutta in salita. Non tanto perché Conte guiderà una coalizione così eterogenea, dato che all’eterogeneità delle coalizioni abbiamo fatto il callo dai tempi della Prima Repubblica. Ma perché guiderà un governo in controtendenza con il Paese reale. Gl’italiani vanno a destra. Mentre un Parlamento che ormai rappresenta più che altro sé stesso, darà la fiducia a un governo tutto squilibrato a sinistra. E i nodi, si sa, prima o poi vengono al pettine.