Un accordo sul Conte Bis ( alle 20 di ieri) ancora non è stato chiuso, si attendono gli esiti di un incontro serale tra vertici 5 Stelle e Pd con la presenza del diretto interessato, rientrato in tutta fretta dal G7 di Biarritz. Però, le premesse ci sono tutte. Zingaretti sarebbe pronto a far cadere il veto, ma non si sbilancia ben sapendo che le contrattazioni hanno bisogno di pazienza oltre che di tattica: «Un confronto è finalmente partito e questo è un fatto positivo», e ancora «Si sta lavorando per dare all’Italia un governo di svolta».

Se è vero che tre indizi fanno una prova, il futuro di Giuseppe Conte potrebbe davvero non dover fare i bagagli da Palazzo Chigi. Uno: i renziani sono già convinti, Nicola Zingaretti ha aperto più di qualche spiraglio nel fine settimana. Due: Luigi Di Maio lo ha proposto fin dall’inizio ed è l’unico nome su cui non ha mai arretrato. Tre: l’ex premier è scappato in tutta fretta dal G7 di Biarritz, senza nemmeno tenere la consueta conferenza stampa finale.

A discutere l’accordo ( che però non è stato chiuso), un incontro lampo a Palazzo Chigi tra Zingaretti e Di Maio, durato appena venticinque minuti. Il tempo di una stretta di mano, in attesa di un nuovo summit che si è svolto ieri in serata, presente anche lo stesso Conte a fianco di Di Maio. Zingaretti ha rilasciato un’unica dichiarazione, parlando di un confronto «finalmente partito e questo è un fatto positivo», ma non ha fatto il nome di Conte e si è limitato a parlare di «incontro interlocutorio ma positivo. Si sta lavorando per dare all’Italia un governo di svolta», riferendo di un «confronto che parte dai contenuti, ma sono ottimista di poter costruire un governo che non finisca come quello entrato in crisi pochi giorni fa, perchè costruito frettolosamente e su un modello sbagliato come quello del contratto».

Ad avallare il nome di Conte ci sarebbe tutta la base grillina, ancora ammaliata dal suo discorso in Senato, ma il vero sponsor è Beppe Grillo, che in lui vede l’unico profilo ancora spendibile dei 5 Stelle. Anche al Colle l’ex premier ha un estimatore nel presidente Sergio Mattarella, con cui in questi mesi ha intessuto una relazione di reciproca fiducia. Se per i dem il nome sembrava inizialmente indigeribile, almeno sul fronte del segretario, il veto sta lentamente cadendo, per non finire sotto lo scacco di Di Maio.

Dopo la quadra sul programma ( in verità i dieci punti dei 5 Stelle per rispondere ai 5 di Zingaretti non sono mai stati oggetto di contesa), il nome di Conte metterebbe la vera pietra d’angolo di un nuovo governo: la designazione del premier, infatti, era stata chiesta con forza da Mattarella per aprire il secondo ( e ultimo) giro di consultazioni.

Non solo il nodo Conte però: dal Nazareno filtra anche l’ipotesi sempre più in campo di un Di Maio ancora nell’esecutivo, questa volta però senza lo scranno di vicepremier e con un solo ministero. Se così fosse, avrebbe del clamoroso l’arretramento del segretario su due nomi che venivano dati come - se non preclusi - almeno come alternativi nel non più così ipotetico esecutivo giallorosso.

Quale sia la contropartita dem a questa accondiscendenza nei confronti dei grillini è il vero tema in campo: sul banco in cambio dei due nomi Zingaretti avebbe messo una richiesta esplicita di desistenza da parte dei pentastellati alle future elezioni regionali, soprattutto quella in Emilia. Potrebbe sembrare uno scambio da poco, così non è: chiedere una desistenza in regioni chiave significa rimettere in campo i dem come unica alternativa alla Lega anche al nord, di fatto certificando l’inesistenza territoriale dei 5 Stelle.

Un “all in”, quello di Zingaretti, che ha spiazzato anche i suoi e che nasconde una tattica precisa: se i grillini dicono no a un governo coi loro due uomini- simbolo, si assumeranno la responsabilità di ammettere che il governo non hanno mai voluto farlo davvero. Inoltre, il Pd avrebbe chiesto due ministeri di peso come quelli dell’Economia e della Giustizia ( per cui sarebbero in campo il senatore Antonio Misiani e l’ex guardasigilli Andrea Orlando).

Se le carte in tavola sono davvero queste ( ma anche se la stretta di mano coi grillini fosse solo sul Conte bis), i leader dei due partiti dovranno comunque fare i conti con la base e la dirigenza dei rispettivi partiti. Gli elettori del Pd, generalmente favorevoli all’accordo e tutto sommato benevoli nei confronti di Conte, non sono però in piena sintonia con i dirigenti dem. Tra gli zingarettiani, infatti, prevale lo sconcerto: tutti più o meno scettici rispetto all’opportunità di un nuovo governo, apprendere co- me le manovre di negoziato siano approdate a un Conte bis e probabilmente addirittura a un Di Maio ministro, li ha gettati nello sconforto. «Se finisce così, Renzi si è ripreso il partito», è il commento prevalente.

E in effetti questo scenario assomiglia molto a quello ipotizzato dall’ex segretario, che mai aveva posto il veto sul nome dell’ex premier e anzi aveva accusato gli zingarettiani di voler far saltare l’accordo, impiccandolo al palo di una discontinuità nominale.

Insomma, i tre indizi per fare una prova in favore del Conte bis ci sono, ma la politica non segue le regole del codice penale e un premier c’è solo quando viene nominato dal Capo dello Stato. A mancare per il Pd sono ancora due passaggi delicati: il primo, l’incontro serale con Conte, perchè «l’accordo non c’è ancora». Il secondo, la direzione convocata per oggi alle 18, che dovrà ratificare quanto Zingaretti ha concordato con Di Maio. L’ultima si è conclusa con un voto unanime, questa chissà. I parlamentari sono quasi tutti schierati a favore del governo, i fedelissimi di Zingaretti nutrono sospetti di bocconi avvelenati. La gincana continua, la verità arriverà mercoledì al Quirinale.