Accade che le parole nel tempo cambino contenuto, anche se mantengono la stessa forma. I linguisti direbbero che, pur in presenza di uno stesso “significante”, che è l’involucro esterno, mutano il significato, cioè il concetto racchiuso.

Prendete “partito politico”. Se avessimo pensato a questa coppia di vocaboli trent’anni fa avremmo trovato quello che più o meno intendevano i nostri padri della patria con l’articolo 49 della Costituzione: un’associazione formata da cittadini con lo scopo di determinare la politica nazionale, organizzata con forme democratiche e chiamata a svolgere funzioni pubbliche fondamentali, come la formazione e la selezione della rappresentanza nelle assemblee in cui si esercita la sovranità popolare.

Oggi si continua a parlare ancora di partiti ( ne stiamo facendo un’overdose in questa estate che ha sostituito ai giochi di spiaggia il thriller della crisi), ma intendiamo ancora la stessa cosa? Qualche dubbio ce l’avremmo. Cos’era il partito della cosiddetta Prima Repubblica a cui fa riferimento la Costituzione? Un attore istituzionale che constava di una struttura organizzativa stabile sul territorio ( per alcune formazioni addirittura dotato di una straordinaria capillarizzazione), di una identità ideologica marcata, di struttura interna democratica e comunque in grado di consentire una contendibilità dei vertici, di una continuità di presenza agli appuntamenti elettorali, sia nazionali che locali.

Il precipitato necessario di questa impostazione era la legge proporzionale - attenzione: col voto di preferenza plurimo - che moderava il conflitto tra i candidati dello stesso partito e consentiva il rapporto diretto con il corpo elettorale.

L’elemento centrale di quella esperienza era dato, dunque, dalla stabilità, sia in termini di continuità della presenza sulla scena pubblica che in termini di raccolta del consenso, e dal rapporto con la cittadinanza: fino alla metà degli anni Ottanta, infatti, il 10 per cento dei cittadini era iscritto ad un partito politico e il livello di partecipazione al voto si aggirava intorno al 90 per cento.

Che cosa sono oggi quegli attori politici che ci ostiniamo a chiamare partiti? Salvo alcune sopravvivenze - peraltro anch’esse abbastanza alterate rispetto al modello risalente siamo di fronte a strutture provvisorie e continuamente cangianti, prosciugate di contenuto ideologico, caratterizzate dall’impianto cesaristico dei vertici, in genere non contendibili, poco strutturate organizzativamente, assolutamente instabili, con performance elettorali che fanno salire e scendere le montagne russe del consenso.

Insomma: più che di partiti democratici parliamo di traversate solitarie di leader con il gruppo dei suoi cari attorno e tanta, tanta potenza di tiro dal punto di vista della comunicazione.

Soprattutto, un destino politico effimero. In fatti tutti i cicli si sono fatti brevissimi; il risultato elettorale di un mese fa oggi proporrebbe cifre del tutto diverse, tramutando le doppie in numeri soli e viceversa. Quale che possa essere il giudizio su quel che accade in questi giorni nella trattativa per il nuovo governo, non si può fare a meno di considerare che il ripristino della normalità in un sistema istituzionale che poggia necessariamente sulla forma- partito, è proprio la restituzione della democrazia dei partiti.

C’è poco da fare: in loro assenza il meccanismo democratico si inceppa, non funziona e tutto cade nelle mani del duce di turno e della sua egolatria ( se non della sua paturnia).

Certo, c’è anche il grande tema della legge elettorale, un evergreen tutto italiano, ed anche elemento che influisce profondamente nella democrazia dei partiti.

Nel frattempo, però, facciamo attenzione a maneggiare la paroletta magica perché quello che circola per lo più non si chiama partito politico: chiamatelo corte del Celeste Imperatore, chiamatelo azienda, chiamatelo congrega, chiamatelo come vi pare, ma usate una certa cautela quando parlate di partito. Perché quello che è scolpito nella Costituzione è tutta un altra cosa.