Questa, Roberto Saviano non l’ha copiata da nessuno: il destino di Matteo Salvini è il carcere, ha scritto. Se non abbiamo capito male, Saviano avrebbe poi avuto sospetto della sostanza truculenta di quella sua bella trovata, spiegando dunque che il carcere al ministro dell’Interno lui mica glielo augurava. Una specie di previsione, insomma, da annotare democraticamente nel prossimo mattinale.

Di questa roba hanno scritto tutti i giornali e non serve dirne qui. Ma mi pare che nessuno si sia occupato del dettaglio più significativo e inquietante di queste ultime propalazioni di Saviano: e cioè che per vedere Salvini in carcere “basterà che si spengano le luci”. Come a dire: fai che poco poco le glorie elettorali del capo leghista sentano l’assedio del riflusso democratico, ed ecco servito il tempo della giustizia finalmente libera di trionfare sul ministro della malavita.

C’è molta più violenza plebea e slealtà meschina in quest’altra previsione ( non è nemmeno questa una speranza, Saviano?) che nella prospettata fine carceraria di Salvini.

L’idea - quante volte realizzatasi in pratica nel nostro caro Paese - che gli avvicendamenti al potere si registrino a suon di manette ai polsi di quelli che fino a poco fa lo detenevano tronfiamente, e che dalla telecamera che quotidianamente insiste sulle gesta del politico rinomato si passi a quella episodica che lo riprende incurvo mentre entra in galera. È questo il Paese che piace a Saviano? Il Paese che fa lavorare il magistrato quando le luci si spengono sul potere che non piace?