Il racconto di Leonardo Sciascia che qui si presenta costituisce di sicuro uno dei vertici della sua narrativa, non solo per la magistrale stringatezza della prosa – levigata e nello stesso tempo graffiante – ma anche per la sagacia della rappresentazione.

Per saggiare la raffinatissima qualità della scrittura sciasciana – o, se si vuole, del suo pensiero, che è la stessa cosa – basti notare come, a differenza di quanto accade nella pagina di altri autori - premiatissimi dall’industria editoriale – quale Antonio Scurati, il nome di Mussolini non sia citato neppure una volta: eppure, l’ideologia fascista e le “porte aperte” che essa propiziava costituiscono la trama evidente attorno alla quale viene tessuto tutto il racconto. Le vicende narrate fanno capo ad un efferato omicidio commesso in un piccolo centro siciliano durante il ventennio e si aprono con una scena memorabile, quella del Procuratore della Repubblica che – parlando con il giudice chiamato a decidere sulla colpevolezza dell’accusato, già arrestato – gli indirizza questo pensiero : “Lei sa come la penso !”.

Chiosa lo scrittore racalmutese con impareggiabile e sottilissima ironia: “Perfetto cominciare: di chi non si sa come la pensa; se la pensa; se pensa”. Due righe soltanto per denunciare la totale assenza di pensiero in quella scatola vuota – di cui le dittature hanno sempre bisogno, notava Karl Kraus – che è la testa del Procuratore.

Costui non pensa perché si limita a far proprio il pensiero del regime, il quale vuole fermamente che l’ordine sia ristabilito con la condanna degli accusati di efferati delitti, come quello narrato in queste pagine, alla pena di morte, reintrodotta dal codice penale dovuto ad Alfredo Rocco.

In sostanza, mentre il Procuratore abdica alla fatica del pensiero, il giudice, che lo scrittore qualifica subito con un aggettivo che lo accompagnerà per tutte le pagine, vale a dire “piccolo” – proprio per distinguerlo dal Procuratore che invece è grande, gigantesco, da far paura – pensa davvero; e siccome pensa, non può che essere decisamente contrario alla pena di morte, al suo principio, alla sua efferatezza.

Tutto il racconto si dipana dunque su questa linea di contrapposizione fra, da un lato, il regime, il volere dei gerarchi, la pressione della stampa, quella del Procuratore e degli alti gradi della Magistratura e, dall’altro, il “piccolo” giudice, che troverà un inaspettato ausilio in uno dei giurati della giuria popolare, un contadino non molto acculturato, ma dotato di “tenace concetto”, vale a dire della capacità di mettere in campo la propria sensibilità umana e giuridica contro quella aberrazione che è la pena di morte.

Alla fine del processo, la sentenza, pur di condanna, non sarà alla pena capitale. E se ciò cementerà un rapporto strettissimo fra il “piccolo” giudice e il giurato popolare, li esporrà fatalmente a possibili ritorsioni, che peraltro essi son pronti a pagare di persona, pur di non abdicare alla loro coscienza ed alle sue esigenze.

Un apologo di sapore moraleggiante, dunque?

Decisamente, no. Si tratta invece di molto di più. Si tratta di una narrazione compiutamente letteraria quanto compiutamente filosofica, anche perché “in apicibus” – come gli scolastici predicavano del bene e del bello – l’una dimensione si converte nell’altra e viceversa.

E’ compiutamente letteraria perché la scrittura, sorvegliatissima e di solare evidenza, cuce la trama di un rapporto umano, delicatissimo e decisivo, non su basi puramente estetiche, ma profondamente vissute e perfino laceranti nella coscienza dei due protagonisti, il “piccolo” giudice e il giurato. E’ compiutamente filosofica, perché la riflessione contro la pena di morte raggiunge la forza di un assoluto, non attraverso l’impeto di una pulsione o l’occulto farsi strada di un sentimento, ma attraverso la luce della ragione, la quale la respinge per semplici ed ineludibili esigenze di giustizia.

Si tratta perciò di un racconto che dovrebbe mettersi al centro degli studi di giurisprudenza per sollecitare i futuri giuristi nel senso che ora enuncerò, invece di propiziarne la noia, meditando sull’ennesima massima della Cassazione, astrusa quanto autoreferenziale perché dimentica della vita reale.

Cosa può imparare allora il giurista da questo esemplare racconto?

Primo. A pensare con la propria testa, cosa non facile, soprattutto oggi, epoca nella quale cercare di farlo sembra quasi un delitto lesa maestà, in un mondo sempre più omologato e omologante.

Il Procuratore non pensa. Il “piccolo” giudice pensa. E anche il giurato.

Secondo. A riportare le norme, dai codici e dalle leggi, alla vita reale. E a far sì che le norme e le leggi siano per la vita e non la vita per le norme e per le leggi.

Il Procuratore non lo sospetta neppure. Il “piccolo” giudice si muove in questa direzione. E anche il giurato.

Terzo. A nutrirsi del necessario coraggio per andare contro corrente, anche rischiando in prima persona.

Il Procuratore non è che un vigliacco asservito al regime. Il “piccolo” giudice si nutre di questo coraggio, pur nella paura che lo rode: il coraggio convive con la paura, altrimenti scolora in incoscienza. Anche il giurato si nutre del medesimo coraggio, venato di paura.

Quarto. A saper dire dunque di no, a tutti coloro che vorrebbero si dicesse di si.

Il Procuratore, infatti, dice di si. Il “piccolo” giudice dice di no. E anche il giurato.

Si potrebbe continuare a lungo, ma è opportuno fermarsi qui. Non senza aver rammentato a chi legge che una definizione che Salvatore Satta forniva del giurista era proprio questa: giurista è colui che dice di no.

Sciascia lo sapeva. Molti laureati in giurisprudenza di oggi lo ignorano. Che dunque leggano!