Luigi di Maio, il vice presidente del Consiglio e capo tuttora del movimento delle cinque stelle, già sofferente per il disagio attribuitogli, a torto o a ragione, dai retroscenisti di fronte alla crescente autonomia di Giuseppe Conte, ha perduto anche quella specie di aureola di andreottismo generosamente conferitagli l’anno scorso in un saggio non dall’ultimo arrivato del giornalismo ma addirittura dal direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana. Francamente, trovai un po’ precipitoso, diciamo così, quel paragone fra Di Maio e Andreotti.

Di cui immaginai le ossa rivoltate nella tomba. Stentavo davvero a immaginare, per esempio, un Andreotti capace di minacciare su due piedi l’impeachment del presidente della Repubblica, come aveva fatto Di Maio da candidato alla vice presidenza del Consiglio e capo del suo partito con Sergio Mattarella per un ostacolo da questi frapposto alla lista dei ministri sottopostagli da Conte dopo il famoso contratto “del cambiamento” per il governo gialloverde.

Andreotti si sarebbe morso la lingua piuttosto che contrastare così un capo dello Stato, per quanti ne avesse incontrati di ombrosi e di cattivo carattere nella sua esperienza politica. Ricordo ancora la smorfia di fastidio che mi oppose quando cercai di farlo parlare, dopo qualche anno, dell’incidente verificatosi nell’estate del 1964 al Quirinale, dove l’allora ministro degli Esteri Giuseppe Saragat, presente il presidente del Consiglio Aldo Moro, affrontò così duramente il capo dello Stato da contribuire, quanto meno, a fargli venire un ictus.

«Ne sarei morto», mi disse Andreotti risparmiandosi con quelle poche parole il commento alle reazioni di Moro e di Saragat, che si erano invece limitati a chiedere il soccorso del corazziere schierato fuori dalla porta. Dopo alcuni mesi di supplenza esercitata dall’allora presidente del Senato Cesare Merzagora, il povero Segni fu peraltro sostituito al Quirinale proprio da Saragat, con l’appoggio decisivo, nella Dc, di Moro. A vendicare in qualche modo il mio sgomento di fronte allo spericolato paragone di Luciano Fontana fra Di Maio e Andreotti è stato inconsapevolmente, proprio qui, sul Dubbio, pur senza menzionare né Fontana né Di Maio, il mio amico Paolo Armaroli. Di cui non so se invidiare di più la competenza del costituzionalista, la brillantezza e l’arguzia dello scrittore e la memoria del politico, essendogli capitato di vivere il Parlamento, e dintorni, anche da parlamentare.

Ebbene, con dovizia di argomenti a commento, fra l’altro, della cosiddetta informativa fatta al Senato sul pasticciaccio, a dir poco, di Mosca, o Moscopoli, come la chiamano quelli di Repubblica avendo sentito più di altri puzza di tangenti nei movimenti di alcuni leghisti nello scorso anno nella Capitale russa, al seguito o quasi del ministro italiano dell’Interno, Armaroli ha visto e indicato in Conte «un Andreotti spiccicato», «in persona, pur nel suo piccolo», anche «con le sue gocce d’arsenico». Che il presidente del Consiglio avrebbe versato fra una distanza e l’altra dal suo vice e titolare del Viminale, Matteo Salvini, senza tuttavia ritirargli la fiducia, ma solo estendendo anche a lui l’esortazione a tutti i ministri a scegliersi meglio collaboratori, consulenti, amici e quant’altri. Si era dimenticato di raccomandargli anche un uso più appropriato delle moto d’acqua della Polizia, visto quello che è accaduto poi col figlio sulla riviera adriatica. Ecco, quindi, la reincarnazione, secondo Armaroli, del “divo Giulio”: Giuseppe Conte, Giuseppi per l’amico Donald Trump e non so cos’altro per gli amici italiani. Debbo confessare che per una certa freddezza nell’eloquio e il sapiente uso di battute al momento opportuno mi capitò qualche anno fa di intravvedere Andreotti nell’allora presidente del Consiglio ancora fresco di nomina Mario Monti, mandando in visibilio un ammiratore che mi era seduto accanto nel cosiddetto Transatlantico di Montecitorio. E, anche a costo deludere il mio amico Armaroli, continuo a vedere ancora molto di Andreotti in Monti e ora un po’ di Monti in Conte.

Conte non sarà probabilmente soddisfatto né di me né di Armaroli, essendosi dichiaratamente proposto sin dall’inizio della sua imprevista avventura politica di assomigliare al conterraneo Aldo Moro. Al di là della facciata spesso addirittura triste, per non parlare della sua tragica fine, Moro era un uomo spiritoso, che si divertiva anche ad imitare i suoi colleghi e concorrenti di partito. Ma dubito che si sarebbe divertito agli spettacoli di Beppe Grillo e alle sue parolacce, e infine alla sua creatura politica. Eppure da qualche settimana a questa parte non c’è domenica che passi senza che il pur esigente Eugenio Scalfari, dall’alto delle sue ricostruzioni storiche e filosofiche, non cerchi di coronare Conte di un certo moroteismo, sperando che lui tenda dalle sponde paradossalmente post- democristiane dei grillini le braccia verso i post- comunisti del Pd. Mah, se sono stelle o lucciole si vedrà.