LUIGI MARIA D’ANGIOLELLA*

Ogni qualvolta la crisi economica ci pone di fronte all’incapacità di realizzare gli investimenti pubblici programmati – condizione ormai quasi permanente per il nostro Paese – e ciò diventa anche argomento di discussione politica, si urla sempre – anziché alla lenta burocrazia, alla difficoltà nazionale di fissare programmi e rispettarli, a un difficile rapporto che c’è, storicamente, tra giustizia e impresa – all’inadeguatezza dell’ultima legge sugli appalti pubblici. Un’ottica decisamente parziale.

Il Codice degli appalti ha conosciuto numerosi interventi negli ultimi 25 anni, modificandosi un impianto che sopravviveva da fine ’ 800 e che funzionava. Cambiamenti talvolta imposti, bisogna dire, anche da direttive europee cogenti.

L’ultimo articolato completo, emanato con il decreto legislativo 50 del 2016, disegna un sistema innovativo, ove ruolo decisivo assumono l’Anac e il rinvio costante a future norme regolamentari da emanarsi per definire gli istituti.

L’attuale dibattito spesso porta a conclusioni estreme, al punto che si parla apertamente della necessità di una totale abrogazione del Codice attuale e di un ritorno alla previgente normativa, per le incertezze che create negli operatori. Senza nemmeno voler considerare l’esplicita accusa secondo cui «l’incertezza alimenta la corruzione».

Certo, tale discussione prende corpo anche per l’esperienza di questi primi 3 anni di applicazione del Codice. Come detto, l’impianto normativo è in gran parte differito all’emanazione di linee guida da parte dell’Anac, di decreti e regolamenti: emanazione ancora incompleta ( solo 28 decreti attuativi dei 66 attesi), eppure il numero delle parole contenute nei testi di tale produzione attuativa è già ora pari al 143 per cento di quelle del vecchio Codice con annesso regolamento.

«Tanto vale abrogarlo completamente e subito», si dice con insistenza. Gli argomenti portati a sostegno di tale opzione sono suggestivi, certo. Ma per rendere un contributo al ragionamento bisogna, intanto, ricordare che la legge delega sulla base della quale fu emesso il D. lgs 50/ 16 fu approvata a stragrande maggioranza e salutata da tutte le forze politiche come una svolta epocale, all’insegna della semplificazione, dell’efficienza e del contrasto alla corruzione. Oggi gli stessi entusiasti di allora tendono ad accalorarsi in senso opposto, in un Paese in cui troppo spesso le reazioni sono modulate sull’onda dell’emotività. Ad avviso di chi scrive si compie così un errore di prospettiva e di obiettivi, quand’anche il Codice costituisse il problema principale ( e, come detto all’inizio, non lo è).

Il Codice infatti è demonizzato soprattutto per la parte che riguarda le modalità di scelta del contraente. Del resto le più significative modifiche apportate sia al D. Lgs 50/ 2016 ( di recente, lo “Sblocca cantieri”, ossia il decreto 32 del 16 aprile 2019 convertito nella legge 55 del 2019) sia al D. Lgs 163/ 2016 hanno riguardato la fase della scelta e davvero poco quella “post contratto”. Eppure il problema del ritardo delle opere e delle sollecitazioni corruttive non si annida solo nella fase dell’aggiudicazione della gara, ma più di sovente proprio in quella della esecuzione dell’opera già appaltata.

E allora la riflessione che andrebbe svolta, e che invece non si coglie nel dibattito, dovrebbe riguardare gli aspetti da rivedere per far sì che l’opera, una volta appaltata, sia completata e consegnata nei tempi fissati. I punti su cui intervenire e che paiono poco esplorati, ma certo ben presenti agli operatori, dovrebbero riguardare innanzitutto la forza del contratto, che passa per una corretta stesura dello stesso e per una preferenza accordata quando possibile ai contratti a prezzo chiuso o a corpo; per l’aderenza a prezzi ufficiali di organi terzi, senza discrezionalità; per l’assunzione, da parte dell’impresa, della paternità del progetto e della garanzia di eseguibilità; per la certezza, assicurata all’amministrazione, della disponibilità delle risorse. E ancora, il contratto dovrebbe assolutamente prevedere: un conseguente divieto di varianti, derogabile solo in casi estremi e per impossibilità sopravvenute; più forza alle procedure espropriative, sulle quali talvolta si arena l’opera appaltata; crono- programmi effettivi e vincolanti, collegati a precise garanzie; sanzioni alle imprese per eventuali colpe gravi o dolo, fino all’espulsione anche temporanea dal sistema degli affidamenti; e nello stesso tempo, possibili sanzioni alla stazione appaltante per inadeguatezza ( tutt’altro che rara) nella gestione della commessa, vizio da far valere come elemento di dequalificazione rispetto a futuri finanziamenti.

Certo, un’opera si realizza se l’impresa ha offerto un prezzo equo, per il quale è in grado di realizzarla con il giusto profitto. E allora, se proprio si vuole intervenire sui sistemi d’aggiudicazione, la prospettiva dovrebbe essere l’opera da portare a termine. Rimane elemento critico del sistema di aggiudicazione, ad esempio, la possibilità lasciata all’impresa di non assumere rischi sulla eseguibilità del progetto; o di proporre migliorie chiaramente inattuabili considerato il prezzo, evidentemente offerto solo per ottenere la commessa – vulnus, quest’ultimo, che non sempre viene colto in sede di verifica su eventuali anomalie dell’offerta stessa. Basta guardarsi intorno per accorgersi che sono le opere iniziate e non completate a costituire il vero problema, lo schiaffo che brucia ai cittadini. Sulla fase dell’aggiudicazione rimane comunque un controllo della stazione appaltante, dei vari concorrenti e poi del Giudice ove necessario. Sulla fase dell’esecuzione non vi è più controllo, con l’impresa che, a torto o a ragione, si trova di fronte solo un dirigente ( quando va bene) della pubblica amministrazione, che non ha la forza di assicurare il concreto compimento dell’opera, depotenziato com’è da armi spuntate nel contrastare la deriva del “fine opera mai”.

Tutti questi argomenti non sempre sono posti nella giusta luce al nostro legislatore: è opinione di chi scrive che un’accurata opera informativa debba venire sia, ad esempio, dall’Anci – che raggruppa le istanze dei Comuni, le stazioni appaltanti più attive – che dalle organizzazioni rappresentative delle imprese: è nel loro interesse che l’incarico sia svolto correttamente e velocemente fino al collaudo, senza pesanti e costosi contenziosi.

* avvocato, presidente della Camera campana degli avvocati amministrativisti e consigliere della “Unaa”