La domanda di equa riparazione per i processi lumaca non può dipendere dalla presentazione dell'istanza di accelerazione. È quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza depositata lo scorso 10 luglio, che ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 2, comma 2- quinquies, lettera e), della legge Pinto. Di fatto eliminando un cavillo sul quale lo Stato, almeno dal 2012 al 2015, ha potuto contare per evitare di pagare migliaia di euro di risarcimenti per processi irragionevolmente lunghi.

La Consulta è intervenuta a seguito di quattro ordinanze di rimessione della Cassazione provenienti da altrettanti procedimenti di impugnazione dei decreti con i quali erano state rigettate le richieste di ottenere un'equa riparazione, dinieghi motivati sulla base della mancata presentazione, da parte degli interessati, della «istanza di accelerazione» entro i 30 giorni successivi al superamento dei termini di durata ragionevole. Una richiesta che, secondo la Cassazione, entrerebbe in contrasto con le disposizioni della Cedu e con la Costituzione, introducendo una «condizione ostativa al riconoscimento dell'indennizzo in questione», violando, quindi, un diritto stabilito dalla legge. La Consulta ha così ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale, sostenendo che l’istanza di accelerazione «non è un adempimento necessario, ma una mera facoltà dell’imputato». Inoltre l’istanza «non ha efficacia effettivamente acceleratoria del processo» che in tal modo «può comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di sua ragionevole durata senza che la violazione di detto termine possa addebitarsi ad esclusiva responsabilità del ricorrente». E ciò significa che la presenza o meno di tale richiesta formale tra gli atti del processo non avrebbe in ogni caso alcuna efficacia sui tempi. Tale istanza, secondo i giudici della Consulta, può al massimo essere un «indice di sopravvenuta carenza o non serietà dell'interesse al processo del richiedente» e, dunque, per determinare la cifra da versare in termini di indennizzo, «ma non può condizionare la stessa proponibilità della correlativa domanda, senza con ciò venire in contrasto con l'esigenza del giusto processo, per il profilo della sua ragionevole durata - si legge nella sentenza - e con il diritto ad un ricorso effettivo, garantiti dagli evocati parametri convenzionali, la cui violazione comporta, appunto, per interposizione, quella dell'articolo 117, primo comma, della Costituzione».