Paolo Maddalena*

Se si leggono gli atti della Commissione Rodotà, pubblicati dal ministero della Giustizia il 15 febbraio 2008, si apprende che il fine di questa Commissione era un fine “contabilistico”: quello di creare un nuovo “contesto giuridico dei beni pubblici per la costruzione di un Conto patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche basato sui criteri della contabilità internazionale”.

A ben vedere, la difficoltà nasceva dal fatto che la “proprietà pubblica” di cui all’articolo 42 della Costituzione, come subito notò il Giannini, era da intendersi “proprietà collettiva demaniale” del Popolo sovrano, come tale “inalienabile”, “inusucapibile” e “inespropriabile”. Fatto, questo, che rendeva problematica la “dismissione” di tali beni e la loro registrazione nel Conto patrimoniale delle Amministrazioni interessate.

Nacque così, a seguito di richiesta di Tremonti, ministro dell’Economia, la Commissione Rodotà, nominata dal ministro della Giustizia Mastella. Detta Commissione ideò e scrisse materialmente lo schema di disegno di legge delega in questione, sotto la direzione di Stefano Rodotà, il quale ( come si rileva dagli Atti del ministero della Giustizia sopra citati) rimase neutrale di fronte alle scelte della Commissione. L’idea portante di quest’ultima fu facile e immediata: per favorire le “dismissioni”, come voleva Tremonti, occorreva eliminare il “demanio”, con i suoi caratteri di inalienabilità, inusucapibilità e inespropribilità dei beni. A questo fine essa deliberò: a) di non tener conto dell’esistenza dello “Stato comunità”, previsto dall’articolo 1 della Costituzione; b) disconoscere la “proprietà pubblica”, prevista dall’articolo 42 della Costituzione; c) porre fuori commercio un limitato elenco di beni demaniali, denominandoli “beni comuni”, e attri-buendone “la titolarità” e la gestione a “pubbliche amministrazioni o a privati”; d) riconoscere la legittimazione ad agire in giudizio per la tutela dei beni comuni o pubblici soltanto allo “Stato persona giuridica” ( in contrasto con gli articoli 3, 41, 42, 43, e 118 della Costituzione).

Nulla di più: in sostanza un vero e proprio oltraggio alla nostra Costituzione repubblicana e democratica.

Tutt’altra cosa fu la letteratura che sorse e si espanse in ordine alla ricerca del contenuto, della definizione e della gestione da parte delle Collettività dei beni comuni. Sicché, nell’immaginario collettivo, l’espressione “beni comuni” è diventato sinonimo di riappropriazione pubblica di beni essenziali per la vita, ceduti a pochi speculatori o malfattori.

Ma questi benefici effetti, come si è ampiamente visto, non corrispondono a quanto si legge nel testo della Commissione Rodotà. Si deve anzi dire che tale testo, lungi dal tutelare i beni comuni, li distrugge, affidando tale compito, per giunta, a una proposta di legge di iniziativa popolare, che dovrebbe andare nelle mani dei parlamentari come “legge di delega”, con tutto quello che si può immaginare potrebbe essere scritto nei conseguenti decreti legislativi.

Dunque, nessuno dia la propria adesione a questa ambigua iniziativa e guardi invece a una prossima proposta di legge, popolare o parlamentare, che davvero dia vita, fornendone anche una definizione, finora mai trovata, dei “beni comuni”. È noto a tutti che oggi non dobbiamo “dismettere” più nulla, visti gli esiti micidiali che hanno portato le “privatizzazioni”, e occorre invece fare un cammino inverso: riportare nel pubblico quello che maledettamente è stato ceduto ai privati. Infatti soltanto uno Stato che abbia un suo solido “patrimonio pubblico” è in grado di realizzare una valida politica economica che possa portare l’Italia fuori dalle sabbie mobili nelle quali è caduta e continua a sprofondare.

* presidente emerito della Corte costituzionale