Il fondo di Abravanel ( Corsera, 28 giugno) è, come al solito, ricco di spunti di riflessione. Eccone alcune. Sorvolo sulla correlazione negativa, asserita ma non dimostrata, tra l’operare delle due più grandi organizzazioni datoriali e la taglia media delle imprese: la presenza dei super lobbisti contribuirebbe a tenere piccole le imprese ( mentre resterebbe da spiegare perché non siano riusciti a evitare la distruzione o la vendita di tante imprese). Siccome anche altri Paesi esprimono rilevanti organizzazioni imprenditoriali e hanno sistemi produttivi caratterizzati da imprese anche molto grandi, certamente più grandi delle nostre, il supposto effetto negativo sulla crescita economica andrebbe ascritto proprio alla variabile “Confindustria e/ o Confcommercio”. La vedo complicata. Mi sembra invece, parlando per la confederazione cui appartengo, che i temi trattati più o meno di recente vadano proprio nella direzione opposta, come per esempio il sostegno all’Ace o al reddito dell’imprenditore, quali forme di incentivo e tassazione orientati alla maggiore capitalizzazione delle unità produttive in un contesto di progressiva semplificazione degli adempimenti fiscali. La lotta all’eccesso di burocrazia, il sostegno alla trasmissione telematica delle evidenze fiscali o la più vasta questione del disinnesco delle clausole di salvaguardia - con la reiterata proposta di operare tagli di spesa e mai incrementi d’imposta a fronte di eventuali mancati target fiscali - o la richiesta alla controparte istituzionale di una condotta equilibrata e lungimirante nella gestione della finanza pubblica, mi paiono tutte tematiche parecchio scollegate dalla taglia delle imprese e piuttosto coerenti con la difficile realtà con cui ci confrontiamo quotidianamente e che dobbiamo contribuire, questo sì, a modificare.

Ecco, il mio punto è proprio la realtà, come insostituibile punto di partenza delle analisi e come elemento, non dico mancante, ma troppo sullo sfondo nella riflessione di Abravanel. Ripropongo un ragionamento molto semplice basato sul confronto della produttività del lavoro nelle imprese ( industria e servizi di mercato) in alcuni Paesi europei secondo la taglia media delle unità produttive. Con qualche semplice calcolo ( sui dati della Commissione europea) si dimostra che la distanza tra il prodotto medio per occupato tra Germania (= 100) e Italia (= 83) verrebbe eliminata se la composizione del nostro tessuto produttivo - a parità di prodotto medio per occupato diventasse uguale a quella tedesca attraverso uno spostamento di occupati dalle piccole alle medie e dalle medie alle grandi imprese. D’altra parte, a parità di taglia e di composizione dell’occupazione, la distanza nel prodotto medio per occupato tra Italia e Germania si ridurrebbe di quasi la metà semplicemente se gli occupati nelle nostre micro e piccole imprese assumessero il tasso di produttività delle micro e piccole imprese tedesche.

Ora valutiamo queste due opzioni con un po’ di buon senso. Trasformare le nostre imprese da piccole in medie e le medie in grandi permetterebbe il pieno raggiungimento dell’obiettivo. Peccato che faccia parte dei sogni, anche nobili, di un potenziale pianificatore centrale benevolente, cioè che ha a cuore il benessere dei cittadini ( sebbene li consideri alla stregua di sudditi), ma non considera la realtà e quindi la realizzabilità del progetto. Portare, invece, la produttività delle piccole imprese italiane ai livelli delle tedesche richiede di confrontarsi con i nodi strettissimi della quotidianità dell’eccesso di carico fiscale - anche in termini relativi rispetto ai partner con cui si fa il confronto - della burocrazia per la sua quota deprimente, dei costi dell’energia che sono più elevati in generale, e più elevati con un rilevante effetto differenziale per le imprese più piccole. Per non parlare dei tempi della giustizia civile che, sovente, non è giusta e quasi sempre non è civile, i cui effetti negativi sul tasso di investimento e sulla crescita operano in misura inversamente proporzionale alla taglia dell’impresa.

Migliorare il contesto è possibile, con un’azione determinata e lungimirante. Cambiarsi i connotati lo è molto meno e implica culturalmente l’idea di disprezzare ciò che si è, come se quello che si è, con tutti i dolorosi difetti, non fosse frutto di infinite scelte del passato e del presente, assunte liberamente da tantissimi cittadini e imprenditori nel corso dei decenni. Siamo quello che siamo e potremmo cominciare davvero a migliorarci se accettassimo la realtà.

Non trascuro che l’espansione della dimensione d’impresa è un driver per la crescita economica, la cui assenza è il principale problema del Paese. Però, sarebbe davvero gradevole togliersi lo sfizio di misurare la produttività delle piccole e medie imprese italiane - e quindi del sistema nel complesso in una situazione in cui la qualità del contesto giuridico, amministrativo e fiscale fosse simile a quella dei nostri migliori partner internazionali.

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