di FERDINANDO ADORNATO

Con Renzo Foa giocavamo a chiamarci “fratello”. Ma non era poi un gioco. Infatti, c’eravamo conosciuti, frequentati e stimati fin da ragazzi. E poi, per oltre dieci anni, avevamo condiviso nella sede di liberal idee, sentimenti, progetti, divani, caffè, portacenere. Eravamo realisti nel tempo delle grandi ideologie. E idealisti, invece, quando si avvicinava l’era della mediocrità. Per noi l’orologio della storia non ha mai battuto l’ora giusta. A dire il vero è successo anche in America e in Francia: una parte della sinistra non si è mai rassegnata all’eterno ritorno di giaculatorie stantie, né accontentata di lifting di comodo. Ha continuato a cercare, come suggeriva Claudio Napoleoni, anche se la ricerca rischiava di condurla lontano dalla casa del padre.

E per Renzo, “figlio della patria”, come scherzando si definiva, questa non era solo una metafora. La storia per lui, messo al mondo da Lisa e da Vittorio Foa, era davvero un “affare di famiglia”. Ma alla fine si mosse davvero oltre la casa del padre. Ed è stata proprio questa continua e appassionata aspirazione alla verità ad aver unito storie come quelle di Kristol, Glucksmann, Finkelkraut, Furet, alle nostre storie, alla sua storia. In Italia, villaggio di disarmante volgarità, il premio è stato l’anatema. L’ignoranza trascolorava spesso in invettive sulle quali tante volte abbiamo sorriso insieme. Libertà dalla classe, libertà dalla razza, libertà dallo Stato. Renzo non ha mai coerentemente smesso di crederci. Ci credeva quando era sotto le bombe americane a raccontare il Vietnam. O quando intervistava Dubcek, dopo che la primavera aveva ceduto il passo all’inverno. Oppure quando difendeva i diritti umani sotto ogni cielo del mondo, dal Tibet al Darfur, senza mai più farsi inibire dal colore dell’oppressione. E ci credeva quando sostenne la libertà dell’Iraq contro Saddam o della Cecenia contro Putin. Così come quando difendeva Israele dalle mille e una notte di bugie propalate dalla sinistra mondiale. Con liberal cercavamo insieme di non farci più contaminare da ideologie di contrabbando. E i nomi di Koestler, Orwell, Aron, Hanna Arendt si sgranavano davanti a noi come le perle di un rosario che, ad Est come ad Ovest, aveva sempre saputo opporsi alla tentazione dell’uomo di farsi Dio.

Un rosario di pensieri perennemente “inattuali”, pensieri “irregolari”. Così li abbiamo chiamati. E così era anche Renzo: un “irregolare”. Non uno sregolato per trasgressione, né un antagonista per partito preso. No,” irregolare” è l’uomo che non si accontenta di verità rivelate, l’uomo che sa che il culto della Memoria e l’amore per la Revisione non sono alternativi. Per Renzo la storia che, come una madre perduta, andava cercando su ogni bancarella, non era “maestra di vita” se non vissuta come continua revisione di se stessa. Il revisionista è l’unico vero cacciatore di tesori contemporanei. Renzo sapeva però che, se la revisione spetta agli storici, l’innovazione può essere agita solo dalla politica. Perciò era anche un animale politico. Ha sognato anche lui che la sinistra potesse andare oltre se stessa. Che l’Italia potesse diventare una democrazia moderna con due veri grandi partiti, figli di valori condivisi. E una volta capito che la sinistra era lontana anni luce da questo traguardo, ha sperato che potesse la destra riuscire nell’impresa, rompendo un’egemonia culturale ormai incistata nella conservazione. Ma, anche in questo caso si è dovuto arrendere alle dure repliche dell’insipienza e dell’arroganza. E ha certificato la disillusione di quello che ha voluto chiamare un “decennio sprecato”. L’ennesima occasione perduta di un Paese che non è mai riuscito a diventare nazione. Negli ultimi mesi di vita fu animato solo dalla disperata speranza di poter ricominciare da capo. Sapendo, però, con Paul Valéry, che politica e libertà tendono ad escludersi perché politica significa “costruzione di idoli”. E Renzo era davvero stanco di idoli. Non a caso, da ultimo, la sua ricerca provò ad attraversare confini sconosciuti. Cercò, con laica spiritualità, di penetrare il mistero della vita. Se in nome della libertà l’umanità ha potuto commettere atroci delitti, si chiedeva, ci dovrà pur essere un’inoppugnabile “verità della libertà”. La centralità della persona nella storia e l’inviolabilità della sua irripetibile singolarità, gli sembrarono allora i concetti giusti per trovare una chiave unitaria della libertà. L’essere supremo è l’Uomo, non la Ragione. Perciò è Filadelfia, non Parigi la stella polare della modernità politica.

A queste convinzioni Renzo ha dedicato gli ultimi anni. E non ha avuto paura di contaminare Ebraismo e Cristianesimo, soprattutto vedendo che un Papa figlio della Grande Europa di Mezzo riusciva a restituire alla Chiesa l’orizzonte del fondamento, quello che riposa sui valori genetici dell’Occidente. Eppure perfino questa sua ricerca sulla religione non è mai stata “religiosa”. Era delicata, a volte scanzonata, come lui era. Perciò oggi Renzo, da lassù, può ancora ripetere con Mauriac: “la morte è l’unica delle mie avventure che non commenterò”.