Ci sono modi diversi di dire le cose. Matteo Salvini opta per la soluzione più radicale: «Se un’intercettazione che riguarda la vita privata esce dalla Procura e finisce sui giornali, dovrebbe finire in galera sia chi le fa uscire sia chi le pubblica». Aggiunge che «non è civile» leggere sulla stampa brani «senza alcuna rilevanza penale: è una cosa da quarto mondo».

L’idea della galera per chi diffonde bobine non è posta come condizione per la stabilità del governo. Questo no. Ma certo sono parole che peseranno sulla riforma delle intercettazioni che il ministro Alfonso Bonafede si appresta a scrivere. E proprio in vista del nuovo testo - che arriverà a fine dicembre, prima dell’entrata in vigore prevista per il decreto Orlando - i vertici del ministero della Giustizia si riuniscono (pur senza il guardasigilli) nella sala Livatino di via Arenula per un tavolo tecnico con due figure chiave: il presidente del Cnf Andrea Mascherin e il numero uno dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna.

Riunione tenuta ieri in tarda mattinata e che produce un segnale condiviso da parte di avvocati e stampa: la libertà di informare e «il diritto alla verità», come lo definisce Verna, vanno protetti, ma va protetta anche la persona intercettata. Mascherin dichiara testualmente: «Il punto di partenza è nella sacralità del diritto di informazione e della tutela, sempre e in ogni caso, della dignità della persona, che non deve mai essere sacrificata». È lo stesso presidente del Cnf a osservare come sul punto «sia convenuto anche il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, con il presidente Verna».

RVEDERE LE PROCEDURE PIÙ CHE INASPRIRE PENE

Ma come ci si arriva? È il tema del tavolo. Secondo il presidente del Cnf si deve «rafforzare la filiera procedurale». Quindi la patologia non può essere risolta «con sanzioni nei confronti di chi pubblica», spiega il vertice degli avvocati. Certo, «il diritto di cronaca non deve toccare soggetti e avvenimenti che non sono parte del procedimento penale, né fatti in ogni caso irrilevanti». Ma se da una parte si può favorire «una forte consapevolezza tra gli operatori del diritto come tra i giornalisti, con percorsi deontologici anche comuni», dall’altra appunto la soluzione va trovata «con rimedi che precedano l’eventuale uso mediatico non decoroso delle intercettazioni».

E in effetti Verna propone la stessa chiave seppur da un angolo visuale diverso: «Penso agli elementi emersi dalle intercettazioni di Perugia: seppur non rilevanti penalmente, si tratta di notizie dalla enorme rilevanza sociale. Un giornalista deve dare la notizia in modo completo, nel momento in cui la acquisisce. Ebbene», spiega Verna, «il punto è proprio l’acquisizione» . Il modo in cui informazioni senza rilevo penale finiscono comunque all’esterno del circuito inquirente.

Vulnus che, spiega il numero uno dell’Ordine, non può certo essere addebitato ai giornalisti.

È lo snodo che in disinnesca, almeno in parte, altri passaggi del tavolo tenuto ieri a via Arenula. In particolare il pressing con cui il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, della Lega, sollecita proprio Verna per comprendere quali sanzioni l’Ordine preveda per i giornalisti che diffondono intercettazioni su aspetti privatissimi o comunque senza rilievo per l’indagine. Il numero uno dell’Odg è chiaro: nel primo caso «ci sono sanzioni deontologiche severe», e anzi «chi vuole la macchina del fango è fuori dalla professione». Se però il giornalista acquisisce brani penalmente irrilevanti ma comunque significativi su un piano diverso, come avvenuto con Lotti e Palamara, il quadro cambia.

È sulla filiera negli uffici giudiziari, come ricordato da Mascherin, che si dovrà agire. Il ministero, spiega il capo di gabinetto Fulvio Baldi, è determinato a «definire un provvedimento prima della data in cui entrerebbe in vigore il decreto Orlando», quindi entro il 31 dicembre prossimo. È lo stesso Baldi a segnalare che tra i passaggi decisivi da chiarire resta «il contenuto dell’ordinanza», cioè la possibilità di richiamare anche intercettazioni non manifestamente irrilevanti. Pare il segnale di una disponibilità a lavorare su una maggiore cautela nella redazione degli atti di pm e giudici.

Secondo Mascherin «va meglio strutturata l’udienza filtro, in modo che consenta un confronto davanti al giudice, fra accusa e difesa, orale e non solo cartolare su cosa dev’essere accolto nel fascicolo». Affinamento che presuppone «la previsione di un margine di tempo, per l’avvocato, più ampio degli attuali dieci giorni nell’accesso al materiale intercettato, che dovrebbe essere consentito, una volta ricevuto l’avviso, con una semplice richiesta al pm». E ancora, il presidente del Cnf sollecita «chiarezza sulla possibilità di estrarre copie, delle intercettazioni: non è effettivo l’esercizio di una difesa subordinata all’ascolto in Procura di centinaia di ore di registrazioni».

«BLINDARE IL DIVIETO DI SPIARE L’AVVOCATO»

Ma da Mascherin arrivano altri due segnali. Uno sui trojan. «Siamo dell’idea che siano di assoluta invasività, e con il progresso della tecnologia possono diventarlo sempre di più. È dunque sconsigliabile estenderne l’utilizzo». Anzi, «è necessario che qualsiasi strumento di intercettazione sia autorizzato solo in presenza di un consistente numero di gravi indizi, e che non sia permesso l’uso, come accade oggi, per la ricerca a strascico di eventuali reati».

L’altro nodo, che Mascherin segnala fin dall’inizio, è «il divieto di intercettare l’avvocato: l’articolo 103, che lo sancisce, va blindato. Adesso», spiega il presidente del Cnf, «quel divieto non è effettivo: c’è la sanzione dell’inutilizzabilità per l’eventuale intercettazione del colloquio tra difensore e assistito. Ma violazioni come quella ai danni dell’avvocato di Roma Francesco Mazza, riportata dal Dubbio, sono gravi: l’ascolto in questi casi deve essere immediatamente interrotto dall’operatore e il materiale subito distrutto». E qui è in gioco un altro principio irrinunciabile, al pari della dignità della persona, come il diritto di difesa.