Il detenuto che si è suicidato mercoledì scorso nel carcere di Bologna, era in attesa di giudizio di primo grado a distanza di 20 anni dal fatto. Parliamo di Stefano Monti, imputato in Corte d'Assise a Bologna per l'omicidio, avvenuto il 5 dicembre 1999, del buttafuori Valeriano Poli. Aveva 60 anni ed era entrato per la prima volta in carcere a 20 anni dai fatti contestati e si era proclamato, da sempre, innocente.

«Vive una situazione particolare – spiega il suo legale Roberto D’Errico -, e nell'inferno del carcere, che è un luogo violento per definizione, evidentemente non ha retto alla pressione del processo». L'udienza per la decisione dei giudici era in programma per il prossimo 26 giugno: il suo avvocato Roberto D'Errico aveva chiesto l'assoluzione, mentre il procuratore Roberto Ceroni, pm del caso, aveva chiesto l'ergastolo.

Monti venne arrestato nel giugno scorso, dopo una svolta investigativa che aveva portato a isolare il suo Dna su una scarpa indossata dalla vittima, e risultata pulita il giorno dopo l'omicidio. Per quei fatti venne già indagato in passato ma la sua posizione venne archiviata.

Il movente dell'omicidio - secondo gli inquirenti - sarebbe da ricercare in una vendetta seguita alle percosse subite da Monti da parte di Poli, impiegato come buttafuori dell'allora discoteca Tnt, fuori del locale. L’uomo, che si è suicidato mercoledì scorso, non ce l’ha fatta ad aspettare. «Anche perché - sottolinea l'avvocato -, il processo, per cui la sentenza era prevista per mercoledì prossimo, è stato impostato in maniera molto aggressiva dalla Procura, che da giugno del 2018 fino ad ottobre ha negato a Monti i colloqui con i familiari, prima che la Corte decidesse di concederli una volta iniziato il dibattimento».

All’avvocato D’Errico ha replicato il procuratore capo di Bologna, Giuseppe Amato: «Francamente parlare di aggressività è parlare di un qualcosa che non appartiene al modo di fare di questo ufficio».

Secondo l’avvocato D'Errico però «può aver influito sulla decisione di Monti di suicidarsi anche la forte pressione mediatica a cui è stato sottoposto dopo il suo arresto». In sostanza, chiosa il legale, «al di là dei fatti personali, su cui è sempre difficile dare un giudizio, va valutato il contesto che si era creato intorno a Monti nell'ultimo anno». Al momento, fa poi sapere D'Errico, i familiari non intendono prendere alcuna iniziativa dopo quanto accaduto, perché «sono distrutti dal dolore, per ora si augurano solo che questa vicenda si sia chiusa definitivamente».

I suicidi nelle carceri italiane non si fermano, dall’inizio dell’anno, secondo quanto riportato dall’osservatorio di Ristretti Orizzonti, siamo giunti a 20 detenuti che hanno deciso di togliersi la vita, su un totale di 60 morti. Sì, perché ben 40 reclusi sono morti per malattia o per cause ancora da accertare. Un dramma, quelle delle morti cosiddette “naturali”, che vede come protagonista la salute in carcere.

E le condizioni igieniche sanitarie di alcuni istituti non aiutano. Al carcere di Poggioreale, finito nella cronaca per la rivolta dei detenuti per solidarietà al mancato trasferimento in ospedale di un detenuto affetto da febbre alta, è uscito fuori un caso di scabbia contratta da un recluso di 21 anni. La famiglia sarebbe venuta a conoscenza della vicenda il 14 giugno scorso, quando la madre del ragazzo si è recata in visita al proprio figlio, detenuto dal 4 aprile scorso nel padiglione Livorno del penitenziario napoletano su provvedimento della Procura della Repubblica di Modena e ha chiesto di lui.

La donna ha saputo, solo allora e per puro caso, dell’allontanamento del giovane a seguito della contrazione di una malattia contagiosa. La famiglia del giovane detenuto ha presentato una denuncia. L’avvocato del ragazzo, Michele Salomone, si è recato immediatamente nel carcere di Poggioreale per saperne di più sulle condizioni di salute del suo assistito. Al legale è stato confermato che il ragazzo è tuttora posto in isolamento a causa di un contagio da scabbia.