Il re è nudo. Al posto del bambino della celebre favola si è occupato di strillare la verità malcelata l'ultimo week- end. In 48 ore si è reso evidente che il Pd non ha ancora tirato fuori neppure un piede dalle sabbie mobili nelle quali si è ritrovato immerso il 4 marzo 2018. La mazzata sarda è di quelle da ko, le divisioni interne sono riemerse tutte insieme, il nuovo segretario una rotta per riprendere davvero la navigazione al momento proprio non sembra averla.

Con la pietra del caso Lotti al collo i renziani si sono visti mettere alle corde nella formazione della nuova segreteria. Ad Assisi, dove si riuniva l'area Giachetti, l'irritazione era palese anche se Maria Elena Boschi, diplomatica e non smemorata al punto da dimenticare i metodi con i quali Renzi ( e lei stessa) avevano governato il partito assicura che «il segretario ha fatto una scelta legittima nominando solo uomini e donne che lo hanno sostenuto al congresso. Nessun di noi ha chiesto uno strapuntino o posti».

Diplomazia. La tensione trapela comunque. Nelle parole che Alessia Morani scrive sull' Huffpost: «L'esecizio di bullismo correntizio più potente mai visto nel Pd». In quelle che pronuncia Rosato: «Di leadership sene vedono tante, ma di quelle che muovo il paese io ne ho vista una sola», e non alludeva al segretario ma a Renzi. Nella rabbia della stessa Boschi per la gestione del caso Lotti: «Sono arrivati più attacchi dall'interno del Pd che dagli avversari». Nella furia di Anna Ascani, già in coppia con Giachetti alle primarie: «Zanda è il futuro e gente come me, di 30- 40 anni, il passato: fa ridere. Chi pensa di superare il passato recente recuperando il passato remoto è pazzo».

In realtà, più che la mancata inclusione nella segreteria, quel che ha imbufalito i renziani sono alcuni nomi indicati da Zingaretti. Giorgio Gori, ex colonna renziana, alla guida del Forum degli amministratori, Maurizio Martina in una delle principali postazioni strategiche, la commissione incaricata di rivedere lo statuto, cioè di ridisegnare il partito. L'area dell'ex segretario intravede, a ragione, una manovra che mira a disgregare definitivamente quello che fu il blocco di potere interno renziano ed è un'operazione già avviata da tempo, con Gentiloni presidente, Delrio capo dei deputati, ora Roberta Pinotti responsabile della Sicurezza nella nuova segreteria, e dunque Franceschini in campo sullo sfondo.

I renziani mantengono una specie di enclave nel gruppo al Senato, hanno ancora potere di veto, ma la loro proposta politica, quella di guardare al centro, è stata fatta propria dalla segreteria stessa, che cerca di guardare allo stesso tempo al centro e a sinistra nell'illusione di poter ripetere l'esperienza bipolarista dei bei tempi ulivisti. Senza l'iperattivo Calenda che ieri è stato forse il più duro di tutti: «Mi vergogno di essere andato in giro a chiedere voti per un partito che è incapace di stare insieme anche mentre il Paese va a ramengo». In questa condizione lo scontro frontale, cioè proprio quel che Zingaretti vorrebbe evitare a ogni costo, è forse per l'area di Renzi una scelta obbligata.

Oggi il segretario, nella riunione della Direzione che promette burrasca, farà il possibile per evitare quell'esito. «Tenterò di ricostruire lo spirito unitario», anticipa e promette e questo gli chiede a gran voce una base estenuata ed esasperata. E' prevedibile che, invece, sia i risultati delle elezioni europee, in realtà deludenti, sia quelli della Sardegna, disastrosi, sia il caso Lotti verranno branditi come armi improprie ai fini della battaglia interna. Alla fine la parvenza di ricucitura reggerà fino al prossimo e probabilmente imminente strappo.

Il vero problema per Zingaretti e per tutto il Pd è infatti l'essere ostaggio delle proprie faide interne e il non riuscire pertanto a impostare una strategia politica reale e credibile. Le europee prima e le elezioni di domenica poi dimostrano che in questo immobilismo il nuovo segretario sta consumando a velocità supersonica il capitale di credibilità consegnatogli dalle primarie. Per non bruciarlo del tutto avrebbe bisogno, più che di «ricostruire lo spirito unitario» di osare fare politica. Anche correndo gli inevitabili rischi di scissione del caso.