È la prima volta, non sarà l'ultima. La maggioranza si divide al momento del voto in commissione sull'emendamento che salva Radio Radicale, Lega a favore, con tutte le opposizioni. M5S contrario. La viceministra Castelli peggiora le cose con il parere negativo del governo, deciso quando era già chiaro che l'emendamento Giachetti- Sensi sarebbe passato. Così è il governo stesso ad andare sotto e le onde sotto la bara gialloverde montano.

Il contraccolpo scuote la maggioranza anche a due passi da Montecitorio, nella commissione di vigilanza Rai. L'accordo tra gialli e verdi per depotenziare con un emendamento del capogruppo leghista Capitanio la risoluzione contro il doppio incarico di Marcello Foa, presidente del cda e anche di raicom, vacilla, poi frana. I pentastellati sono divisi, discutono, litigano, chiedono alla Lega di riformulare, infine salgono in commissione decisi a votare l'emendamento, ma non ce la fanno e un attimo dopo lasciano di nuovo l'aula.

Senza numero legale tutto rinviato alla settimana prossima, e l'imbarcazione che dovrebbe trainare il paese beccheggia sempre di più. Segnali di nervosismo o annunci di crisi? Di certo elementi che ormai si accumulano. Come la telefonata di Salvini al «leghista di Fi» Toti per annunciare la probabilità del voto in settembre. O come l'ordine che lo stesso Salvini avrebbe dato ai ministri del Carroccio riuniti a casa sua: «Tenetevi pronti».

Eppure capire da cosa derivi questa fibrillazione permanente e crescente, da dove nascano i venti di crisi, non è affatto facile. Subito dopo le elezioni europee la situazione appariva ad alto rischio e tuttavia, a modo suo, ordinata. L’M5S aveva impostato una campagna elettorale estremamente aggressiva nei confronti degli alleati di governo e l'aveva persa. Il sospetto che il vincitore volesse mettere subito all'incasso il successo europeo trasferendole, tramite crisi ed elezioni, sul parlamento italiano era inevitabile. Meno di tre settimane dopo di quella chiarezza non resta nulla.

La geografia politica si è ridisegnata essenzialmente intorno alla vera partita decisiva in corso, quella con la Ue. Il premier ha letteralmente cambiato casacca, passando da un tecnico di area 5S a un leader politico in area Quirinale. Di Maio si è rimangiato gli attacchi elettorali per blindare l'alleanza di governo, ma con un Movimento ormai visibilmente poco convinto e che guarda in parte proprio a Conte e in parte a un impossibile ' ritorno alle origini'.

Nella Lega la tentazione degli ufficiali di prendere in mano le redini del governo è palesemente in contrasto con la difesa dell'alleanza gialloverde del leader. Intorno piovono pietre. Sulla Lega stessa, moltiplicando le sofferenze e le divisioni interne dei 5S. Sul Csm sino a lambire il Quirinale, con ciò decurtando la possibilità di intervenire del capo dello Stato.

Al formicaio impazzito della politica italiana, dove nessuno oggi sembra disporre di una strategia e dove i venti di crisi sembrano più una tempesta ingovernata che il risultato di qualche piano d'azione definito, corrisponde la lucidità fredda dell'offensiva europea. Bruxelles ha atteso l'esito delle elezioni europee ma, appena ufficializzato un risultato che certificava il mancato sfondamento da parte dei sovranisti, ha attaccato prendendo a pretesto un scostamento in realtà minimo su conti. L'obiettivo è politico e non contabile.

La Ue vuole da Roma un rovesciamento negli indirizzi di politica economica e per questo non si fermerà nella marcia verso la procedura d'infrazione per debito, dunque verso il commissariamento, senza una manovra correttiva che certifichi la resa del governo gialloverde e senza assicurazione sulla successiva legge di bilancio. Anche se si finge convinta che alla fine la Ue accetterà le cifre portate dal ministro Tria, eviterà la procedura anche senza manovra correttiva, e poi ripartirà da zero con le trattive sulla legge di bilancio in autunno, la Lega sa benissimo che le cose non stanno così.

Dunque Salvini deve decidere se affrontare la sfida con l'Europa dopo elezioni anticipate in settembre, con un nuovo governo, una nuova maggioranza e probabilmente in veste di premier, oppure lasciare che dell'incombenza si incarichi Conte, evitando di assumersi dunque tutte le responsabilità. Trai molti elementi che giustificano la fibrillazione di questi giorni, il dilemma del capo leghista è, se non l'unico, almeno il principale.