Da quando sono nati i Pride, tante conquiste sono state fatte, tanti passi avanti messi a segno. Ma la strada da fare è ancora molta. Per questo ogni anno il rito si ripete con pari intensità. Nel 2019, come accade da diversi anni, il Pride italiano si articola in diverse manifestazioni che attraversano tutto il Paese, da maggio fino a settembre.

È l’idea giusta che non serve solo un grande appuntamento, ma una visibilità diffusa, ancora più necessaria in quelle parti del Paese dove ancora resistono i pregiudizi. Questo sabato si preannuncia particolarmente intenso: scenderanno in piazza Roma, Trieste, Pavia, Messina, Ancona. Una festa dei diritti, dell’orgoglio, contro le discriminazioni.

Nel luglio del 1969 - esattamente cinquanta anni fa - a New York ci fu il primo Pride, nato dopo gli scontri con la polizia. Nel locale Stonewall, frequentato principalmente da trans, le forze dell’ordine avevano la cattiva abitudine di fare irruzione, picchiando le presenti e arrestandole. La colpa? Erano considerate un problema di ordine pubblico solo per il fatto di esistere, di essere quello che erano. Ma quel giorno di 50 anni fa, Sylvia Rivera disse basta: si levò una scarpa e la lanciò contro la polizia, dando inizio alla rivolta. Una rivolta che non si è ancora fermata. Il gesto di Sylvia, morta nel 2002, è paragonabile a quello di Rosa Park per i diritti degli afroamericani: un gesto che riscatta una intera comunità discriminata. Da allora, molte scarpe sono state lanciate, molte rivolte, personali e collettive, sono andate in scena. Roma per esempio festeggia i 25 anni del primo Pride. All’inizio erano pochi, oggi le strade della capitale si riempiono perché tanta strada è stata fatta, tanta ne resta da fare. Finché un solo ragazzino o una ragazzina vengono presi in giro perché non sono eterosessuali, non ci si può fermare. Un altro anniversario ci aiuta allora a ricostruire questo mosaico della Storia, fatta di contraddizioni, di passi avanti e di pericolosi rigurgiti. Il 5 giugno di tre anni fa furono approvate le unioni civili. Dopo vari colpi di scena e il timore di non farcela ancora una volta, il governo Renzi mise la fiducia e divennero legge dello Stato. Lo stesso coraggio non ha poi avuto il governo Gentiloni quando si trattava di mettere la fiducia per far approvare lo ius soli temperato. La battaglia, portata avanti dalla senatrice dem Monica Cirinnà, ha già permesso a diecimila persone di unirsi civilmente uscendo da una condizione di clandestinità. La normativa ha consentito l’accesso a diritti fondamentali, come la reversibilità della pensione o la possibilità di avere accanto in ospedale il proprio compagno se si è malati. Ma ha consentito anche di affermare nel senso comune la “normalità” dell’amore tra due uomini e tra due donne, ha costruito un simbolico diverso. Purtroppo non basta. Sono tanti gli episodi di omofobia, tante le affermazioni che tendono a riportare indietro le lancette dell’orologio. Si deve lottare ancora, non solo perché le coppie che decidono di unirsi possano accedere al matrimonio vero e proprio come le coppie etero, ma per cambiare profondamente la cultura e la società.

Il Pride è tutto questo: orgoglio, diritti, costruzione di una società diversa, in cui tutti e tutte siano più liberi. È così che nasce la connessione, sempre più forte, con una parte del movimento femminista. Quando leggete la sigla di chi partecipa alle manifestazioni, Lgbtq, non spaventatevi. Stiamo parlando di questa apertura. “B” per esempio sta per bisexual, “q” sta per queer, un movimento che è anche una disciplina universitaria e che, indipendentemente dalla traduzione letterale, significa nuove identità, nuove soggettività, cioè la possibilità per tutti di essere se stessi fuori dalla norma imposta. Il Pride è per tutti e tutte, per la libertà di essere sempre se stessi. Una buona ragione per continuare a lanciare la scarpa contro il potere.