Paolo Delgado non ha torto a vedere un po’ l’ombra di Giulio Andreotti nello scrupolo col quale Luigi Di Maio ha avvertito come prima esigenza, dopo la dura sconfitta elettorale subita domenica scorsa nel rinnovo del Parlamento europeo, quella di tutelare il governo a prevalente partecipazione grillina dai rischi di rovinosi contraccolpi. Che potrebbero fare precipitare la situazione in elezioni anticipate destinate probabilmente a riservare al movimento delle 5 stelle altre, e forse anche più amare sorprese.

La buonanima di Andreotti, in effetti, convinto che il potere logorasse più l’opposizione che il governo, era di quest’ultimo un difensore accanito, specie quando gli toccava di farne parte e ancor più di guidarlo. E’ rimasta famosa la reazione opposta agli inizi degli anni Novanta a Ciriaco De Mita, che da presidente del partito, con Arnaldo Forlani segretario, lamentava che il governo guidato in quel momento proprio da Andreotti fosse tanto claudicante da meritarsi una crisi. “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”, gli rispose il presidente del Consiglio da Palazzo Chigi.

D’altronde, prima ancora di vederlo in difficoltà elettorale, quando anzi era sulla cresta dell’onda, il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana intravvide in Luigi Di Maio una certa somiglianza con Giulio Andreotti in un saggio che l’anno scorso sorprese e persino scandalizzò qualche recensore.

Tuttavia nel Di Maio rappresentato dal pur estimatore Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano come “un pugile suonato” dopo le elezioni di domenica, ma confermato alla guida del suo partito con l’ 80 per cento dei voti di chi ha partecipato al referendum digitale gestito dalla piattaforma di Davide Casaleggio, c’è qualcosa che mi fa tornare alla mente un ben altro personaggio della Dc: Amintore Fanfani. Penso, più in particolare, al Fanfani reduce, come segretario del partito, dalla clamorosa sconfitta referendaria sul divorzio nel 1974. Che sfatò la leggenda di una Dc invincibile con quel quasi 60 per cento di no all’abrogazione della legge sul divorzio e il 40 per cento dei sì, tradotto da Giorgio Forattini su Paese sera in un tappo che ne avrebbe fatto le fortune di vignettista. Il tappo era proprio Fanfani, in uscita come un missile da una bottiglia di champagne in mano ai divorzisti in festa.

Tornato alla segreteria della Dc non più tardi dell’anno prima, allontanandone addirittura il delfino Arnaldo Forlani, cui forse ancora rimproverava di non averlo saputo mandare al Quirinale alla fine del 1971, in una lunga, convulsa corsa vinta invece anche su Aldo Moro da Giovanni Leone, il povero Fanfani sembrò destinato ad una rovinosa e immediata resa dei conti nello scudo crociato.

Ricordo ancora la convinzione di Indro Montanelli - col suo Giornale appena uscito nelle edicole grazie anche all’aiuto di Fanfani, insofferente di un Corriere della Sera

secondo lui troppo a sinistrache il segretario della Dc non potesse farcela a resistere. «Fanfani conta amici e nemici», titolò personalmente Montanelli sulla prima pagina del primo numero del Giornale il mio articolo sulla vigilia del Consiglio Nazionale dello scudo crociato che avrebbe discusso della situazione politica dopo la sconfitta referendaria.

Presente anche Gianfranco Piazzesi, che borbottava previsioni pessimistiche in un toscano competitivo con quello del nostro direttore, Montanelli era quasi pentito, in una conversazione al ristorante poco distante dalla redazione romana, di avere definito a suo tempo “Rieccolo” il già una volta ex segretario della Dc. «Questa volta disse masticando qualche fagiolo - temo che non ce la potrà fare a riprendersi. Ma - avvertì- sia chiaro che noi non lo lasceremo solo». E invece Fanfani riuscì a rimanere al suo posto, sorprendendo anche Montanelli.

Ma, più che Fanfani, paradossalmente, come potrebbe rischiare adesso Di Maio, vinsero con quel risultato i suoi avversari, dichiarati o occultati dietro frasi convenevoli di apprezzamento. I quali, prevedendo la spinta che la sinistra esterna al partito avrebbe finito per ricevere non tanto dalla vittoria referendaria dei divorzisti quanto dalla sua dimensione, vollero perfidamente che Fanfani restasse dov’era per potergli intestare anche i risultati delle elezioni regionali dell’anno successivo.

Si votò per i consigli regionali il 15 e 16 giugno del 1975. La Dc, che nelle elezioni politiche anticipate del 7 e 8 maggio 1972 aveva avuto il 38,6 per cento dei voti, scese al 35,2: pochi punti, tutto sommato, ma tantissimi rispetto ad un Pci salito dal 27 al 33,4, collocandosi quindi a meno di due punti di distanza dallo scudo crociato.

Ricordo ancora la sera dei risultati di quelle elezioni, quando un gruppo di festanti reduci da un comizio improvvisato da Enrico Berlinguer sul balcone della sede del Pci della vicina via delle Botteghe Oscure, si avventurarono in Piazza di Pietra, dove si trovava la redazione romana del Giornale, e citofonarono per gridare la loro soddisfazione e sbeffeggiarci.

Il mese dopo Fanfani non era più segretario della Dc, sostituito dal medico moroteo Benigno Zaccagnini, a sua volta destinato ad essere confermato dal successivo congresso e chiamato alla disperata avventura di evitare nelle elezioni politiche anticipate del 1976 il sorpasso comunista sullo scudo crociato cavalcando il tema del rinnovamento. Che non sarebbe certamente bastato a garantirgli il risultato se il buon “Zac” non avesse ricevuto nella campagna elettorale e nelle urne l’aiuto indovinate di chi? Di Montanelli in persona. Che, anche a costo di mettere in imbarazzo l’amico Giulio Andreotti, il quale se ne lamentò con lui in un colloquio privato, coniò la formula della Dc da votare “col naso turato”, pur di evitare che venisse sorpassata, appunto, dal Pci berlingueriano.

Quel soccorso alla Dc, sia pure a naso turato, creò scompiglio anche nel Giornale, dove Enzo Bettiza e Cesare Zappulli si candidarono al Parlamento, venendo comunque eletti entrambi, nelle liste di un’improvvisata alleanza laica. Dalle urne del 20 e 21 giugno 1976, cui sarebbe seguita una breve e drammatica legislatura, contrassegnata dal sequestro e dall’uccisione di Aldo Moro e dalla consumazione della stagione della cosiddetta “solidarietà nazionale”, la Dc uscì col 38,7 per cento dei voti: tre punti e mezzo in più delle regionali dell’anno prima. Guadagnò un punto anche il Pci, che però col 34,3 per cento risultò distanziato dalla Dc di 4 punti e rotti: il doppio di un anno prima. A fare le spese del mancato sorpasso comunista, o del recupero democristiano, come preferite, furono i partitini laici tradizionalmente alleati dello scudo crociato, senza la cui forza peraltro la Dc dovette poi fare accordi con i comunisti per guadagnarne l’appoggio a due governi monocolori guidati da Andreotti. I liberali si ridussero all’ 1,3 per cento dei voti, i repubblicani al 3 per cento e i socialdemocratici al 3.3. I loro leader non ringraziarono certamente Montanelli. Ma questa storia naturalmente non ha più addentellati possibili con quella attuale dei grillini, la cui “centralità” di memoria quasi democristiana nello schieramento politico, col 32 per cento raccolto nelle urne dell’anno scorso, sembra avere ballato una sola estate, essendo sopraggiunto il 17 per cento di domenica scorsa.