Non c’è alcun bisogno di una pronuncia di illegittimità costituzionale, perché a legge vigente la messa alla prova può essere concessa dal giudice direttamente in udienza preliminare. Quindi, di fatto, esistono ampi spiragli per la messa alla prova. Parliamo della sentenza della Corte Costituzionale numero 131 e depositata l’altro ieri. È accaduto che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Catania ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli art. 464- bis, comma 2, e 521, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui tali disposizioni «non prevedono la possibilità di disporre la sospensione del procedimento con messa alla prova ove, in esito al giudizio, il fatto di reato venga, su sollecitazione del medesimo imputato, diversamente qualificato dal giudice così da rientrare in uno di quelli contemplati dal primo comma dell’art. 168- bis» del codice penale.

L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito, anzitutto, l’inammissibilità delle questioni sotto il profilo dell’insufficiente motivazione della loro rilevanza. Nel caso di specie, non si tratterebbe in effetti di una diversa qualificazione, ai sensi dell’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., dello stesso fatto originariamente contestato dal pubblico ministero, bensì dell’emersione di un fatto diverso.

Ma la Consulta sentenzia che l’eccezione è infondata, perché dal mero confronto tra il capo di imputazione e la pur sintetica descrizione, contenuta nell’ordinanza di rimessione, delle risultanze istruttorie, non emerge infatti alcuna diversità tra i fatti storici di detenzione e cessione di marijuana e cocaina descritti nel decreto che dispone il giudizio, e quelli che l’imputato – sulla base degli atti di indagine – risulta effettivamente avere commesso; bensì – esclusivamente – una diversità nella qualificazione giuridica da parte del giudice rispetto a quella originariamente ipotizzata dal pubblico ministero, in ragione della modesta quantità delle sostanze stupefacenti detenute e cedute dall’imputato, con conseguente sussumibilità dei fatti contestati e accertati nella più favorevole fattispecie prevista dal comma 5 dell’art. 73 del d. P. R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), anziché in quella più grave disciplinata dal comma 1. Tale situazione è per l’appunto disciplinata – come esattamente ritenuto dal giudice a quo – dall’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., pacificamente applicabile anche al giudizio abbreviato ( Cassazione, sezione sesta penale, sentenza 20 gennaio 1992, n. 477).

Anche le altre obiezioni, risultano infondate dalla Consulta, perché ha già affermato, in una con la giurisprudenza della Cassazione (sezioni unite penali, sentenza 31 marzo- 1° settembre 2016, n. 36272), che lo speciale procedimento di sospensione del processo con messa alla prova costituisce un vero e proprio rito alternativo (sentenze n. 91 del 2018 e n. 240 del 2015), in grado di assicurare significativi benefici in termini sanzionatori all’imputato in cambio – tra l’altro – di una sua rinuncia a esercitare nella loro piena estensione i propri diritti di difesa in un processo ordinario.

In sintesi la Corte costituzionale ha sciolto ogni incertezza e ha detto che il giudice può concedere il beneficio della messa alla prova direttamente in udienza preliminare. Anche, magari, per evitare lungaggini che mina il principio di economia processuale. La messa alla prova, ricordiamo, che si tratta di un beneficio che comporta la sospensione del procedimento, la determinazione di un programma con attività di volontariato e lavori di pubblica utilità e, infine, se il programma va bene, l'estinzione del reato.