Nella notte dell'assemblea nata morta, quella dei parlamentari pentastellati, è Roberto Fico a indicare il vero nodo, con precisione forse persino superiore a quella che lui stesso immagini. «Dobbiamo decidere se vogliamo essere movimento o partito», dice e proprio questo è il bivio di fronte al quale si trova l'M5S. Solo che anche il bivio, proprio come l'assembleona spompata dalla decisione di Di Maio di aggirarla rivolgendosi direttamente alla piattaforma Rousseau, è finto, frutto di un'illusione ottica alla quale alcuni pentastellati credono davvero ma che molti sanno perfettamente essere posticcia. La strada è già segnata. Il Movimento è un ricordo. L'interrogativo riguarda solo quanti contorcimenti saranno necessari ai 5S per completare la trasformazione in partito.

Dalla tregenda post elettorale M5S uscirà con una struttura da partito. Certamente specifica e segnata da peculiarità proprie, che peraltro vanno in direzione diametralmente opposta rispetto al mito e al miraggio della democrazia diretta. Una segreteria di fatto, che nessuno ha eletto ma sarebbe specioso attaccarsi al particolare: se ci fossero congressi e regolari elezioni i dirigenti sarebbero gli stessi: Casaleggio e Grillo, i mammasantissima che hanno deciso di confermare Di Maio con apposite dichiarazioni al momento giusto ancora prima dell'assemblea e della consultazione in rete, Di Battista e Di Maio, i leader sul campo, Fico, l'opposizione di sua maestà.

Incaricato della "riorganizzazione", di fatto della guida quotidiana del partito sarà un direttorio con i soliti Dibba, Dima e Fico, più Paola Taverna, Chiara Appendino e probabilmente un paio di altri nomi già eccellenti. Per allestire la messa in scena del consiglio nazionale, o direzione, o comunque si decida di chiamare la pleonastica assemblea presente in tutte le liturgie di partito ci vorrà un po' di tempo in più ma probabilmente ci si arriverà.

In una certa misura il trauma del 26 maggio ha anche sdoganato "le correnti". Il dissenso interno, che per ora si era espresso solo per voci singole e immediatamente sospettate di  "deviazionismo", ha ricevuto nell'attimo di tormentata autocoscienza una sua legittimazione. La Ruocco, col suo voto contrario al Di Maio, lo stesso Fico, con le sue critiche travestite da dubbi, Paragone con i suoi inviti rivolti al capo politico perché lasci uno dei suoi ministeri, suonano per la prima volta come legittime espressioni di una corrente di minoranza. Anche se poi, proprio come in tutti i partiti, al dissenso formalmente legittimo si accompagna la paura, di solito giustificatissima, che il leader contestato la prenda male. Al punto che Paragone va molto vicino a raccomandarsi pubblicamente in una specie di autodafè.

Ma questo è ancora il meno. L'aspetto determinante è che i 5S hanno interiorizzato la logica del partito, molto diversa da quella di un Movimento. Sulla soglia dell'assemblea di mercoldeì notte il sottosegretario Spadafora, fedelissimo di Di Maio, avvertiva: «In gioco c'è il governo». E Di Maio, nel suo intervento: «Dobbiamo decidere sul governo». Non l'identità chiamata in causa da Fico e solo da lui. Non gli obiettivi finali del Movimento. Il governo: proprio quello a cui avrebbe guardato, in un frangente simile, Giulio Andreotti. Lo stesso Di Battista, che rappresenta l'anima più radicale dei 5S ma è cosa molto diversa da un'anima movimentista, offre pieno sostegno a Di Maio: «Mi scuso per non averlo aiutato abbastanza».

Di fronte al rischio estremo M5S ha scelto la strada del partito, quella della mediazione a tutti i costi, del calcolo oculato dei rapporti di forza, del pragmatismo opportunista. E' quel che avrebbe fatto al suo posto qualsiasi partito. Ma è anche quello che non avrebbe mai fatto un movimento. Solo che la partita è appena cominciata. I 5S hanno fissato la loro colonna d'Ercole, il nucleo comunque non sacrificabile. Se Salvini avesse insistito per difendere il viceministro Rixi sarebbero stato pronti e rassegnati alla crisi. Il leghista lo ha capito e non si è impuntato.

Subito dopo, però, ha presentato il conto e sono tutte imposizioni che per l'M5S sarebbero state irricevibili prima di arrivare al governo: pace fiscale, cioè condono, sospensione del codice degli appalti, termovalorizzatori, Tav. Se in nome del calcolo politico il Di Maio fresco di riconferma le accetterà, l'ultimo ponticello con le origini movimentiste verrà dato alle fiamme. Se le rifiuterà, sacrificando il governo e rischiando una nuova pesantissima batosta elettorale, i 5S dovranno decidere se essere movimento, esercitando un condizionamento anche stringente ma sempre dall'esterno del governo, o agire da partito sino in fondo: cioè facendo propria senza più schermi come quello del ' contratto' la logica delle coalizioni a pieno titolo tra partiti diversi.