ALESSANDRO PAROTTA*

Adistanza di pochi mesi dalla stesura della prima bozza di proposta, l’iniziativa del Cnf di inserire la figura dell’avvocato nella Carta costituzionale prende vigore, con la presentazione del testo al Senato, l’impegno alla sua approvazione rinnovato dal guardasigilli Alfonso Bonafede e un’ulteriore autorevolissima approvazione come quella del primo presidente emerito della Corte di Cassazione Giovanni Canzio.

Non è un caso che sia anche un magistrato della sua levatura a unirsi all’iniziativa del Consiglio nazionale forense per mettere in evidenza l’esigenza di modificare la Costituzione, introducendovi la figura dell’avvocato. Come brillantemente illustra il presidente Canzio, la necessità di una riforma in tal senso è ricollegabile al principio dell’autonomia e dell’indipendenza della difesa, tassello irrinunciabile della professione forense.

A chi gli eccepisce che la figura dell’avvocato è contemplata nell’articolo 24 della Carta, il magistrato risponde – mediante l’uso del linguaggio a cui è più abituato, quello delle aule di giustizia – che non vi sono elementi espliciti ma solo indizi impliciti, che non legittimano, a livello Costituzionale, in alcun modo la professione dell’avvocato in relazione alla sua figura di Difensore e parte imprescindibile del processo.

Le parole di Canzio sono condivisibili e trovano la sua ragione nel meccanismo di inserire in coda al secondo comma dell’articolo 111 il richiamo alla imprescindibilità dell’avvocato per garantire la tutela giurisdizionale e alla necessaria condizione di libertà e indipendenza in cui il difensore deve poter esercitare la sua attività. Poche righe, ma che portano con sé il peso specifico del profilo dell’avvocato, figura divisa tra il dovere di osservare la Legge e quello di difendere – da qualsiasi accusa – l’Assistito. Proprio per questo è sinonimo di libertà. Non v’è chi non veda come il contenuto chiaro e sintetico sopra riportato garantirebbe all’avvocato di poter essere costituzionalmente tutelato: profilo non di poco conto.

Con una riforma in tal senso, ne trarrebbero beneficio non solo gli avvocati ma anche tutte le altre parti del processo se non lo stesso sistema giudiziario, che, in tal modo, sarebbe governato da condizioni di effettiva parità e indipendenza tra le parti, le quali – è bene ricordarlo – seppur con funzioni e attribuzioni diverse, esercitano ciascuno un proprio fondamentale ed imprescindibile ruolo, quali attori del procedimento giudiziario.

Dalle parole di Canzio emerge anche il ricordo per il quale fu proprio l’avvocato Calamandrei, in seno all’assemblea costituente, a volere inserire i principi in ordine all’autonomia e all’indipendenza della Magistratura.

In un discorso del 22 maggio 1946, proprio l’avvocato Calamandrei, infatti, ribadiva che “il principio della indipendenza del potere giudiziario deve essere praticamente attuato mediante l’autonomia amministrativa della magistratura. Se il potere giudiziario deve essere veramente indipendente, com’è il potere legislativo, bisogna che i componenti dei suoi organi, al pari di quelli che compongono gli organi legislativi, non dipendano come impiegati del potere esecutivo”. Risulta, dunque, particolare e dovrebbe far riflettere la circostanza per la quale siano stati proprio un – autorevole – avvocato prima ed ora un illustre Magistrato a voler costituzionalizzare e tutelare le proprie controparti del processo: chi meglio di loro può capire la fondamentale importanza di poter contare su organi della medesima giustizia liberi, autonomi ed indipendenti? Non a caso a Torino lunedì prossimo si terrà un dibattito sul tema dell’“avvocato nella Costituzione” che vedrà interventi dei vertici della magistratura torinese, dei rappresentanti dell’Ordine forense e del vicepresidente del Csm David Ermini. Sembra un altro segno del rafforzarsi di un reciproco riconoscimento che può solo assicurare ulteriore forza, autonomia e autorevolezza non alla singola parte ma all’intero ordine giudiziario.

* Direttore Ispeg - Istituto Studi Politici Economici e Giuridici