Lo Stato è un’organizzazione politica che esercita la sua sovranità sui soggetti che risiedono sul suo territorio. Sovranità che esplica tutelando i loro diritti e vigilando sui doveri ai quali devono adempire in ossequio alle leggi vigenti. A nessun’altra autorità - men meno a singoli individui - è permesso surrogare i poteri dello Stato tra i quali vi sono quelli inerenti la salvaguardia della dignità della persona e delle sue libertà morali, culturali, materiali. È questa una nozione antica che è andata affinandosi nel corso dei secoli, ma mai venuta meno al principio ispiratore sul quale si è modellata.

Possiamo dire che lo Stato è la sola costruzione immateriale visibile e tangibile organicamente predisposta al fine di dare un ordine alla comunità che in essa si riconosce.

Rientra o meno nei compiti di uno Stato garantire a tutti i soggetti un decente livello di vita fino a quando questi in esso si riconoscono e soltanto per causa di forza maggiore si trovano nella deprecabile situazione di non poter rispettare alcune delle leggi fondamentali, come quella dell’inviolabilità della proprietà ( privata o pubblica, non importa) che viene comunque dopo il primario ed insopprimibile bisogno di assicurarsi il diritto all’esistenza, sia pur appropriandosi di qualcosa che giuridicamente non gli appartiene, ma che abbandonato a se stesso, a cominciare dagli organismi riconducibili allo Stato, può fruire da riparo per chi di nulla dispone?

Dopo sei anni di occupazione abusiva di un edificio pubblico romano abbandonato da parte di donne, bambini e uomini impossibilitati ad avere un alloggio purchessia, una società di gestione pubblica, dunque lati sensu statale, si accorge che quegli esseri umani dimenticati da sempre, o almeno da quando hanno preso possesso dello stabile, non hanno mai pagato - immaginiamo per l’impossibilità di farlo - la fornitura dell’energia elettrica. Improvvisamente ed immaginiamo sempre senza alcuna sollecitazione ai singoli ritenuti “fantasmi” per le istituzioni ad adempiere all’obbligo viene staccata dagli erogatori la corrente.

Quel che ne consegue è prossimo ad un film dell’orrore, ma per i malcapitati non è un film purtroppo. Il disagio diventa un dramma; gli ammalati si aggravano; i bambini s’impauriscono; gli adulti sono disperati; è complicato perfino preparare qualcosa da mangiare. Nessuno ha la percezione tra coloro che sono sopraffatti da un evento che ritenevano impossibile che se vivono nell’illegalità, altrettanto illegale è il comportamento dello Stato che per sei anni è venuto meno a quel principio ricordato all’inizio e che è frutto della civiltà di un mondo nel quale perfino la miseria più estrema è stata combattuta in ogni tempo, non sempre malauguratamente con successo. Non avrebbe dovuto lo Stato provvedere allo sgombro dell’edificio, ma soltanto dopo aver dato una sistemazione decorosa a chi disperatamente in quelle mura cadenti e maleodoranti si era asserragliato crescendovi i propri figli e coltivando le proprie malinconie? Non sarebbe stato meglio per tutti che fin dall’insorgere del problema le istituzioni pubbliche avessero cercato la soluzione più congrua affinché sei anni dopo il bubbone non scoppiasse? Ed è scoppiato soltanto perché un cardinale di Santa Romana Chiesa, sostituendosi alle autorità preposte e riconosciute, ma inadempienti, personalmente si è calato in un fetido tombino e, rischiando la vita, ha riallacciato la corrente elettrica. Il solo modo - un modo estremo, ne conveniamo - per far conoscere al mondo la condizione di una comunità di disperati, soggetti sul territorio di uno Stato libero, indipendente, prospero, e sedicente “solidale” che agonizzava nell’indifferenza generale.

Certo, il porporato - per l’occasione ovviamente non vestiva la porpora cardinalizia - ha probabilmente commesso un reato. Si difenderà con il Vangelo, presumibilmente, piuttosto che con i Codici. Noi laici potremmo invocare la moralità di Socrate e quella disobbedienza civile di David Thoreau che tanto ci è cara quando di fronte ad uno Stato che tradisce se stesso altre armi non abbiamo e non vorremmo mai usarne, men che meno quelle per farci giustizia da soli - come la vulgata recente in merito sembra suggerire - mettendo fuori gioco lo Stato stesso ed il principio che ne sostiene l’azione legittimandolo a garantire la convivenza nella legalità.

Ma dal fondo di quel tombino, dalle scale sudice o approssimativamente pulite di quello stabile occupato a trecento metri dalla cattedrale di Roma, la sede del vicario del Papa, viene un grido che assomiglia tanto a quello di un morente. Il grido dello Stato che ammette la sua impotenza, arreso davanti alla macchina dell’ignavia che lo stritola. Quello Stato che non ha saputo provvedere ai bisogni elementari dei suoi cittadini, che ha tollerato l’illegalità “necessaria” senza fornire uno sbocco a qualche centinaia di disperati, che ha negato la luce elettrica a vecchi e a bambini. Ma ancora non si domanda che cosa ne farà di quel fatiscente falansterio. Si mormora che il progetto era, almeno fino a sei anni fa, di abbatterlo per costruire sull’area un albergo. Non sappiamo a quante stelle, ma senza dubbio meno luminose delle povere lampadine riaccese da un temerario cardinale polacco.