Domani mattina, a palazzo Chigi, si consumerà l'ultimo atto dello psicodramma politico montato per due settimane intorno alle dimissioni del sottosegretario leghista Armando Siri. Sulla sorte di Siri non esiste suspence alcuna: sarà dimesso, sempre che non anticipi lui i tempi lasciando il posto in extremis. Tutto il resto, in particolare lo stato dei rapporti tra M5S e Lega e tra Matteo Salvini e Giuseppe Conte, al termine della battaglia invece è incerto. Qualcosa, ma non tutto, dipenderà dalla decisione della Lega sul votare apertamente contro la proposta del premier oppure no. Ma anche se con dimissioni spontanee, oppure disertando il cdm, o ancora astenendosi Salvini scegliesse di evitare la spaccatura plateale l'incendio non sarebbe domato. Solo momentaneamente circoscritto.

Fino al penultimo atto, la conferenza stampa nella quale Conte ha notificato il suo verdetto, si era trattato di uno scontro tra i due partiti che compongono la maggioranza, tra un M5S che, in difficoltà serie, non poteva evitare di cogliere la ghiotta occasione offerta dal caso Siri e una Lega che ha reagito con minor lucidità del solito, finendo per dover combattere sul terreno più sfavorevole, quello della corruzione, eterno cavallo di battaglia pentastellato. Ma dalla settimana scorsa si è aggiunto e ha anzi preso il sopravvento un altro conflitto, forse ancor meno facilmente governabile: quello tra il presidente del Consiglio e il vicepremier leghista che nei dieci mesi dalla nascita del governo gli ha spesso rubato la parte. Probabilmente troppo spesso.

Che a Conte andasse stretta la parte del prestanome spedito a palazzo Chigi in condizioni di sovranità limitata era evidente già da mesi. A partire dal caso Diciotti e poi con sempre maggiore determinazione Conte si è imposto come figura chiave del governo, sfruttando al meglio, ogni volta che si sono presentate, le opportunità offerte dalla necessità di un mediatore tra i due soci della maggioranza, ma anche puntando sul carattere un po' ibrido del suo ruolo, a metà tra politico e tecnico, per creare canali di comunicazioni diretta con le istituzioni italiane ed europee, con il Colle e con Bruxelles. La gestione diretta dell'ultima fase della trattativa sulla legge di bilancio dell'anno scorso gli ha permesso il salto verso il protagonismo. La coppia di governo formata dai vicepremier si è trasformata a tutti gli effetti in triumvirato e Conte ha fatto valere di nuovo il suo ruolo quando si è trattato di risolvere, o più precisamente di rinviare, il primo vero guaio nel quale la maggioranza si era imbattuta prima di Siri: la decisione sulla Tav.

Era inevitabile che le legittime ambizioni del presidente del consiglio si scontrassero prima o poi con l'invadenza del suo vice e leader leghista. E' capitato sul caso Siri e forse non casualmente, essendo la vicenda quella meno facilmente gestibile, in termini di propaganda e immagine, da Salvini. Ma di scintille ce n'erano già state. Conte aveva di fatto congelato la misura per la Lega più importante, quella sull'autonomia di Lombardia, veneto ed Emilia- Romagna, e aveva bloccato con una certa sufficienza il vessillo stesso della Lega, la Flat Tax. Si era trattato però di rallentamenti, di rinvii, mai di una sfida aperta.

Chiamato a decidere sul caso Siri Conte si è smarcato non solo dai condizionamenti di Salvini ma anche dal ' padrinato' di Di Maio. Lo ha fatto nel metodo, evitando di discutere la mossa che aveva deciso di fare con Salvini, avvertito solo con un messaggino. Lo ha fatto con la scelta dei tempi, optando proprio per il giorno in cui il leghista era non solo fuori Italia ma anche impegnato in un appuntamento chiave della sua campagna elettorale, quello con l'ungherese Orbàn. Lo ha fatto assumendo una posizione molto più dura di quella dello stesso Di Maio, negando cioè ogni valore all'elemento che sino a quel momento era parso risolutivo, il rinvio a giudizio o meno di Armando Siri. Nell'impianto del premer il rinvio a giudizio non fa alcuna differenza, consistendo la colpa di Siri nella presentazione dell'emendamento a vantaggio dell'imprenditore Arata indipendentemente dal perché quell'emendamento sia stato presentato. Di Maio, che fino a un'ora prima assicurava che senza rinvio a giudizio sarebbe stato lui stesso a chiedere il reintegro di Siri, si è rapidamente adeguato. L'importanza della scelta di Salvini riguarda forse più i rapporti con il premier che quelli che il collega Di Maio. Votare contro la proposta di Conte vorrebbe dire tradurre in gesto concreto le parole pronunciate a porte chiuse dopo la conferenza stampa su Siri: ' Conte non ha più la mia fiducia'. Da quel momento il premier sarebbe sotto tiro a ogni passo, e ne sarebbe consapevole. Ogni suo dubbio sulle autonomie o sulla Flat Tax verrebbe considerato ragione sufficiente per la crisi. Del resto la Lega lo ha anticipato ieri: ' Autonomie o crisi di governo'.

Certo, se invece Salvini decidesse di evitare la battaglia, facendo dimettere Siri, o di disinnescarne in parte la valenza esplosiva, disertando il cdm, il gesto suonerebbe come riconoscimento della premiership di Conte e in cambio Salvini potrebbe chiedere molto. Ma è un'eventualità che oggi pare distante.