Il medico, nell’esercizio di una attività diagnostica o terapeutica, può lecitamente compiere atti che incidono sulla sfera della libertà sessuale di un paziente solo se abbia acquisito un consenso esplicito e informato dello stesso o se sussistano i presupposti dello stato di necessità. Altrimenti il professionista deve immediatamente fermarsi in caso di dissenso del paziente. È sulla base di questo principio che la terza sezione penale della Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso della procura generale di Torino, ha annullato con rinvio alla Corte di appello una sentenza di assoluzione dall’accusa di violenza sessuale di un anziano ginecologo di Novara, il 64enne Carlo Gambaro, condannato in primo grado a 6 anni per violenza sessuale su denuncia di tre pazienti straniere sessualmente stimolate senza alcun bisogno né alcuna spiegazione. Durante un semplice controllo ecografico di routine che non prevedeva neppure una visita, a tutte aveva posto domande sulle loro attività e abitudini sessuali per poi procedere con ispezioni non concordate. Il medico si era difeso respingendo gli addebiti e sostenendo che ' siamo nel campo delle sensazioni: hanno pensato di aver avuto una visita strana ma mi sono sempre comportato in maniera ineccepibile, cercando di dare consigli e curare problematiche'. Il medico «avrebbe agito con la sola consapevolezza e volontà di curarle, ritenendo che il loro consenso alla particolare manovra fosse implicito o, addirittura, non necessario perché l’atto era dovuto».

Per i giudici della Cassazione, ogni volta che il ginecologo visita una paziente deve chiedere il consenso ' prima di procedere al compimento di atti incidenti sulla sfera di autodeterminazione della libertà sessuale'.