«Intervento riuscito e risolutivo. Presidente ora in salute», lo scarno e roseo bollettino medico precede di poco il trasferimento di Silvio Berlusconi in degenza mentre per il ritorno a casa bisognerà aspettare domenica. Il tam tam azzurro martella a ripetizione con lo stesso ritmo: il leader è in pista, non vede l'ora di riprendere la campagna elettorale. Almeno l'ultima affermazione è senza'altro vera. Berlusconi, non ha alcuna intenzione, almeno per ora e nonostante il consiglio del suo medico Alberto Zangrillo, di dare forfait. Ma lo spavento è stato grande e le condizioni complessive di salute del Cavaliere restano pericolanti. In un partito normale, non di proprietà personale, il tema della successione sarebbe considerato urgentissimo.

Stando alle voci che filtrano dai corridoi azzurri il rischio che il campione di Arcore debba abbandonare la partita non è affatto fugato. Se dovesse capitare, sarebbe il segnale del rompete le righe all'interno di Forza Italia. Le possibilità che il partito azzurro sopravviva a un ritiro dalla prima linea del suo padre- padrone e fondatore sono esigue, forse inesistenti. In 25 anni di carriera politica Berlusconi non si è affatto preoccupato di preparare una vera successione. Si è attorniato di volta in volta di favoriti che hanno occupato per breve tempo la seggiola: ultimi nella lunga lista Angelino Alfano, Giovanni Toti e attualmente Antonio Tajani, rappresentante della vecchissima guardia, uno degli 8 fondatori di Forza Italia, il 29 giugno del 1993 nello studio del notaio Rovereda a Milano. Nessuno ha resistito a lungo, semplicemente perché per Berlusconi il ruolo di ' numero due' non implica alcuna autonomia politica. Al contrario, richiede un surplus di fedeltà, tradotta concretamente in obbedienza. Non è un caso che nessun abbia resistito a lungo, tanto più in assenza di un gruppo dirigente all'interno del quale confrontarsi e che il capo ha sempre evitato che si formasse.

Oggi Forza Italia è un partito del tutto balcanizzato. Ciascuno contro gli altri e il Cavaliere per tutti. Tajani, l'ultimo delfino, rappresenta l'anima forzista ' autonomista' ma moderata. E' convinto che si debba evitare la colonizzazione da parte della Lega rampante di Salvini ma meno bellicoso nei confronti del capo leghista di quanto non siano le altre teste di serie degli ' autonomisti', soprattutto la trojka al femminile rappresentata dalla vicepresidente della Camera Mara Carfagna e dalle capogruppo Anna Maria Bernini e Maria Stella Gelmini. Le tre stelle ascendenti nell'universo azzurro sarebbero tutte, per motivi diversi, più efficaci del presidente del Parlamento europeo nel conquistare consensi. Ma la posizione radicalmente antileghista soprattutto delle prime due e la rivalità tra loro ne indebolisce le posizioni, soprattutto in un partito nel quale gli eletti e soprattutto gli amministratori sanno che solo l'asse con il Carroccio è in grado, se non di garantire un futuro, almeno di autorizzare speranze. Sul fronte opposto, quello che mira invece a confermare l'asse con la Lega, ci sono Licia Ronzulli, il cui potere in un partito- corte è assicurato dalla vicinanza al sovrano, il portavoce dei gruppi parlamentari Giorgio Mulè e soprattutto l'azienda, il cui peso politico è sempre stato più che rilevante anche se alla fine il capo ha sempre deciso da solo. La postazione di Toti, il ' leghista azzurro', è ancora diversa: sulla porta, con un piede già fuori. Se non fosse che Salvini di un arrembaggio ex forzista non ne vuole sapere.

Tenere tutto insieme sarebbe impresa impossibile per chiunque. Solo il Cavaliere può farlo e comunque non è detto che gli riesca ancora a lungo. I segnali della frana conclamata sono evidenti già in questa campagna elettorale, con i piccoli signori locali delle preferenze che guardano al futuro e quindi puntano sul loro piazzamento molto più che sul tirare la volata al capo squadra. Anche a costo di esporlo a una figura pessima nelle urne che per Fi sarebbe la sepoltura. Ma anche per loro Fi è il passato.

Non bisogna però pensare che Berlusconi sia già fuori gioco nella prossima campagna elettorale. Farà di tutto, checché ne pensino medici e familiari, per giocarsi sino in fondo una partita a cui tiene moltissimo per diversi motivi. In parte c'entra l'orgoglio personale: ritiene che solo il rientro nel Parlamento europeo laverà l'onta della cacciata da quello italiano. Ma le considerazioni politiche sono altrettanto importanti. Il capo di Fi è forse il solo in Italia a perseguire una strategia precisa a Bruxelles. Mira a creare lui il raccordo tra un Ppe a forte componente sovranista, quella il cui massimo rappresentante è l'ungherese Orbàn, e la destra sovranista, il cui campione numero uno è l'italiano Salvini. Non è una missione semplice, necessiterà di massima capacità diplomatica, ma anche di solidi rapporti personali: una destra nella quale fosse presente l'AfD tedesca, per esempio, non potrebbe essere presa in considerazione dal Ppe di Angela Merkel. L'interesse di Salvini, un'affermazione sovranista tanto netta da permettergli di ridiscutere l'aumento dell'Iva, è poi diametralmente opposto a quello del Cavaliere, che spera al contrario che la nave gialloverde naufraghi proprio in seguito all'impatto con l'iceberg della prossima manovra.

Berlusconi però è tenuto in alta considerazione sia da Orbàn che dalla Merkel e nel Ppe è una figura centrale. Sulla carta, ma anche in moltissime amministrazioni locali, è ancora alleato di Salvini. In Italia e in Europa, la sua posizione è progressivamente slittata dal ruolo di pericolo per la democrazia sostanziale a quello opposto di diga a garanzia della stessa. Dunque pensa di poter realizzare un'impresa che andrebbe molto vicino a un capolavoro politico. Ma per farlo ha bisogno di sedere nel Parlamento europeo e di entrarci con tutti gli onori. Comunque vada a finire, però, la battaglia che l'ex premier si accinge a combattere, se anche riuscirà a concluderla, sarà probabilmente l'ultima.