«Al prossimo Consiglio dei ministri porrò all'ordine del giorno la mia proposta di revoca del sottosegretario Siri, assumendone tutte le responsabilità». Giuseppe Conte convoca una sorpresa una conferenza stampa nel tardo pomeriggio e spiazza tutti annunciando la “rimozione” dell’esponente leghista del governo. A stupire non è solo la scelta improvvisa di parlare del caso davanti ai giornalisti, ma anche la sostanziale smentita di quanto annunciato pochi minuti prima dal diretto interessato, Armando Siri, su Facebook. «Dal primo momento ho detto di voler essere immediatamente ascoltato dai magistrati per chiarire la mia posizione. La disponibilità dei magistrati ad essere ascoltato c’è e confido di poterlo fare a brevissimo», aveva annunciato il sottosegretario ai Trasporti sui social network, anticipando la mossa del presidente del Consiglio. «Sono innocente, ribadisco di avere sempre agito correttamente, nel rispetto della legge e delle Istituzioni, e di non avere nulla da nascondere. Confido che una volta sentito dai magistrati la mia posizione possa essere archiviata in tempi brevi», scrive Siri, prima di annunciare: «Qualora ciò non dovesse accadere, entro 15 giorni, sarò il primo a voler fare un passo indietro, rimettendo il mio mandato, non perché colpevole, bensì per profondo rispetto del ruolo che ricopro».

Caso chiuso, dunque, il governo prende altro tempo prima di decidere. O almeno questo sembrava il senso delle parole vergate dal leghista. Nulla di tutto ciò. Il colpo di scena arriva neanche quindici minuti dopo, quando il presidente del Consiglio si presenta in sala stampa. «Le dimissioni future non hanno molto senso», dice l’avvocato del popolo, che proprio da legale spiega il senso della sua decisione: «Le dichiarazioni spontanee non segnano una svolta» nelle indagini preliminari, quindi non ha alcun senso rimandare una decisione diventata ormai urgente. Il capo del governo è convinto che la politica «con la P maiuscola» della tenersi alla larga dagli «opposti ismi», del giustizialismo e del garantismo, «e saper discernere caso per caso assumendosi la responsabilità di valutare la singola situazione». Questo non significa sostituirsi «ai giudici», precisa il primo ministro, che invoca responsabilità da parte degli organi di informazione, perché un indagine non si trasformi in gogna, a tutela del principio della civiltà giuridica. Ma Conte entra nel merito della vicenda e spiega le ragioni che lo hanno spinto a chiedere un passo indietro al sottosegretario. «È normale ricevere suggerimenti da parte delle associazioni di categoria per introdurre nuove norme, purché siano generali e astratte e non avvantaggino i singoli imprenditori», argomenta il premier. E la norma proposta da Siri «non era generale» e «non avrebbe offerto una parità di chances per il futuro», ma solo vantaggi retroattivi per alcuni imprenditori. Conte sa che, soprattutto in campagna elettorale, la sua scelta non sarà indolore, danza su un campo minato con la speranza di chi confida solo nella fortuna. E prova a vestire i panni che fin da subito Di Maio e Salvini hanno voluto cucirgli addosso: quelli dell’arbitro. «La Lega non si lasci guidare e ispirare da una reazione corporativa ma si lasci ispirare da una più complessiva e superiore valutazione di un interesse superiore», dice Conte. «E il Movimento non ne approfitti per cantare vittoria», aggiunge, nel tentativo infaticabile di trovare una quadra.

La missione sembra molto complessa. Come complicata appare la convivenza a Palazzo Chigi tra due alleati che da tempo si comportano da avversari irriducibili. E da Budapest, dove ha incontrato il primo ministro Viktor Orban, Matteo Salvini commenta a caldo le notizie che arrivano da Roma: «In un paese civile non funziona così, lascio a Conte e Siri le loro scelte, a me va bene qualsiasi cosa se me la spiegano», dice il capo della Lega. «Spero che venga il 26 maggio prima possibile, così le ragioni elettorali di qualcun altro verranno meno». E con loro, probabilmente, anche il governo del cambiamento.