Inchiodato, o quanto meno compromesso, in un’indagine per corruzione dallo sfogo intercettato e allusivo a trentamila euro versatigli dall’amico Paolo Arata per un tentativo neppure riuscito di procurare incentivi ad un’azienda eolica siciliana posseduta dallo stesso Arata in società con un detenuto riconducibile al capo latitante della mafia Matteo Messina Denaro, il sottosegretario leghista al Ministero delle Infrastrutture Adolfo Siri è sceso un po' dalla croce.

I magistrati romani dell’inchiesta che è già costata a Siri le deleghe e un mezzo preannuncio di rimozione dal governo da parte del presidente del Consiglio, hanno smentito ad un cronista giudiziario del quotidiano La Verità –“nomen nominis”, potrebbe vantarsi il direttore Maurizio Belpietro - che vi sia ai loro atti l’intercettazione usata mediaticamente contro Siri, o qualcosa che le assomigli.

Com’è potuto accadere o ripetersi una cosa del genere, visto che non mancano purtroppo precedenti di processi sui giornali molto più avanti di quelli dovuti nei tribunali, si potrà forse spiegare e capire nei prossimi giorni, si spera in tempo per rimuovere almeno questo sasso, o macigno, dalla strada delle elezioni europee e amministrative di fine maggio. Dai cui esiti sembra dipendere la sopravvivenza del governo e persino della legislatura.

Certo è che ha ancora una volta trovato conferma il paradossale auspicio espresso qualche anno fa da uno che si intende della materia: l’ex presidente della Camera e magistrato Luciano Violante.

Che, scettico o contrario allora alla separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici, disse che sarebbe bastata, almeno a lui, la separazione delle “carriere” dei pubblici ministeri e dei cronisti giudiziari impegnati a riferirne il lavoro.

Magari - mi permetto di aggiungere come giornalista- senza neppure scomodarsi a bussare alla porta del procuratore o sostituto di turno, ma fermandosi a qualche soffiata, indiscrezione e quant’altro di un cancelliere, di un agente della polizia giudiziaria o di chissà chi altro, mosso chissà da quale scopo.

Prendersela col giornale o col collega che di volta in volta scivola più o meno consapevolmente su questo terreno già viscido di suo è persino superfluo.

E’ questo metodo di lavoro, di amministrare giustizia da una parte e di fare informazione dall’altra, e tutti insieme politica, che non va e grida francamente vendetta. Troppi sono i danni che esso ha procurato a quello che chiamiamo aulicamente “il sistema”, avvelenandolo.

Ogni volta che si fa un elenco - e ne abbiamo fatti anche qui, al Dubbio- degli intrecci casuali o voluti fra cronaca giudiziaria e cronaca politica, già il giorno dopo capita di lamentarne la parzialità, l’incompletezza, perché i fatti corrono velocissimi e ti mettono in ritardo.

Nel caso particolare del sottosegretario Siri - che già in base al famoso “contratto” di governo gialloverde per il reato di corruzione contestatogli avrebbe il diritto di rimanere al suo posto sino all’eventuale rinvio a giudizio- l’analisi della situazione si fa più complicata per una serie di circostanze.

Oltre alla già ricordata e di per sé tossica campagna elettorale, non foss’altro per la sua interminabile durata, essendo di fatto in corso già dall’anno scorso, e non essendo destinata a chiudersi neppure a fine maggio sia per i ballottaggi comunali di metà giugno sia per le elezioni regionali dell’anno prossimo, vi è la molteplicità delle sedi di indagini sugli affari eolici.

A Roma è approdato un troncone delle inchieste in corso a Palermo e a Trapani. E a Roma i magistrati inquirenti, già in sofferenza per l’anacronistico sospetto che siano usciti dai loro uffici ciò che neppure vi risulta arrivato, la intercettazione cioè del professore Paolo Arata, esperto di energia per la Lega, si trovano nella scomoda situazione di un quasi interregno, essendo in scadenza il capo della Procura Giuseppe Pignatone.