C’era una grande attesa per la conferenza stampa che il procuratore generale William Barr ha tenuto ieri, 9.30 ora locale, a Washington. Al centro dell’incontro con i media l’ormai famoso “rapporto Muller”, il documento finale sulle presunte intromissioni russe nella politica statunitense, in particolar modo nelle elezioni presidenziali del 2016 che portarono alle elezioni di Donald Trump.

In realtà il documento completo e le sue conclusioni sono state consegnate al Congresso, a maggioranza democratica, solo nel tardo pomeriggio.

La circostanza di una conferenza stampa, indetta prima che i deputati fossero a conoscenza dell’intero documento, ha da più parti sollevato concreti dubbi. Il sospetto è stato quello che questa mossa fosse stata architettata per modellare la percezione pubblica a favore del presidente.

In 22 minuti Barr ha ripercorso la vicenda del “Russiagate” e sostanzialmente ha confermato il contenuto che era stato estrapolato e reso noto dal Dipartimento di Giustizia nel marzo scorso.

Il procuratore generale ha confermato sostanzialmente che interferenze russe vi furono e sono state accertate ma non si arriva alla conclusione «che persone che si sono occupate della campagna elettorale di Trump abbiano collaborato o si siano coordinate con il governo russo». Inoltre Barr ha anche ribadito la piena collaborazione da parte della Casa Bianca alle indagini. Insomma «no collusion», nessuna relazione pericolosa tra Trump e i troll russi.

Il procuratore Barr, per la verità con una certa leggerezza, ha dichiarato alla stampa di aver preso in esame 10 circostanze nelle quali Trump potrebbe aver manovrato in modo di porre degli ostacoli all’inchiesta del consulente speciale Robert Muller. E’ questo il passaggio che ha suscitato le maggiori perplessità in quanto Barr ha giustificato l’atteggiamento del presidente come il risultato di frustrazione e rabbia.

In realtà Trump ha sempre rifiutato di essere ascoltato da Muller; si tratta di un elemento fondamentale perché questo atteggiamento non ha permesso di giungere a prove sufficienti tali da stabilire che il presidente abbia commesso il reato di ostruzione alla giustizia.

Sembra così essere arrivata al termine, con la vittoria di Trump, una vicenda iniziata con il licenziamento del capo dell’Fbi, James Comey, che ha visto il coinvolgimento di 19 avvocati, numerosi agenti del Federal Bureau oltre a informatici ed analisti. Ma se dalla casa Bianca “The Donald” ha twittato immediatamente un significativo “Game Over” forse la storia non si è ancora chiusa del tutto. Riamane da sapere quali sono le prove, sebbene insufficienti, sul coinvolgimento russo che trovò Muller. Un compito che ora spetta al Congresso, il lavoro del quale è separato da quello giudiziario.

I democratici poi sicuramente non allenteranno la presa sulle altre grane di Trump come le presunte violazioni delle norme sul finanziamento alla politica, i sospetti per un caso di molestie sessuali. Per non parlare dei rapporti quantomeno opachi tra il suo impero economico e il fisco.