«E’ stato come fotografare con una risoluzione altissima una pallina da tennis sulla Luna». La prima foto del buco nero, che è poi la “foto di una assenza”, è capace di mandare in tilt la nostra povera, invecchiata e decrepita immaginazione legata all’essere che ci circonda ma mai al non- essere. Vai a spiegare ad un povero mortale che lo scoop degli astrofisici mondiali riguarda un buco invisibile, dove la luce non esiste, lontano dalla Terra una cosa come 10 alla nona, cioé sei miliardi e mezzo di masse solari. La pallina da tennis però dà un’idea. Elisabetta Liuzzo, ricercatrice dell’Istituto radioastronomia dell’Inaf, istituto nazionale di Astrofisica, ha partecipato a questo evento mondiale e galattico, lavorando al processo di calibrazione dei dati.

E’ la prova quindi dell’esistenza del buco nero?

«Esatto. La conferma di quello che ci si aspettava: un buco con l’anello di materiale di fotoni attorno».

Perché si chiama nero?

«Perché da tutto ciò che finisce nel buco non esce luce e quindi appare nero. E’ come un lavandino in cui si scarica tutto ciò che c’è attorno».

Cosa ci cade dentro?

«Polvere. Che sotto effetto di questa gravità fortissima si surriscalda e accresce sotto forma di disco. Ci si aspettava infatti un disco incandescente, un anello di emissione con un buco dentro. Il che è in accordo con la teoria generale della relatività di Einstein».

Dunque, se ve lo aspettavate così, non c’è nemmeno tutta questa grande emozione. Era previsto».

«Non era detto che la teoria della relatività funzionasse proprio lì vicino al buco nero dove ci sono condizioni estreme. Nulla era scontato. E poi c’è l’aspetto tecnologico- strumentale che è stato una vera sfida».

Quanto ci avete lavorato?

«Per il solo sviluppo delle antenne ci sono voluti vent’anni».

Vent’anni?

«L’idea di osservare quest’ombra dei buchi neri è nata 20 anni fa. Però la tecnologia non era pronta. Si utilizza ora una serie di telescopi sparsi nel mondo per sviluppare un telescopio virtuale delle dimensioni della Terra. Questo permette di avere risoluzioni altissime in grado di osservare i buchi neri».

Questa foto è per voi un punto di partenza o di arrivo?

«Un punto di partenza, abbiamo visto un primo buco, la sfida è vederne altri per cercare di mettere a punto delle leggi universali sulla fisica del buco nero. Poi abbiamo il limite della tecnologia che va sviluppata per andare più avanti. Ci siamo limitati a due buchi nella nostra galassia. Dobbiamo cercare di andare più lontano».

E’ stato fotografato il più vicino?

«No, non è il più vicino ma quello che ha una dimensione proiettata sul cielo maggiore» .

Quanto sarebbe?

«Cinquantasei milioni di anni luce». Beh, allora proprio dietro l’angolo.