Ero un ragazzo quando nel 1975 attraversai per la prima volta, a piedi, il muro di Berlino. La moderna metropolitana dell’ovest si fermava contro una inferriata con i binari che si perdevano nel buio. Scendevi dal treno, passavi per un dedalo di corridoi sotterranei e poi in una grande sala fumosa dove attendevi che un altoparlante urlasse in tedesco il numero del tuo passaporto «Italien: sieben, acht, null, zwei…», per dire che era pronto il visto per il passaporto Italiano 7802… e uscivi dall’altra parte, in un altro mondo e in un altro stato. Di qua i palazzi occidentali pieni di luci, di là ancora le macerie della guerra pudicamente nascoste da cantonate di legno con i “vopos” (la polizia della Ddr) che ti guardavano storto dalle garitte del muro che divideva la città.

Immagini che servirebbero di monito ai ragazzi di oggi figli di una generazione euroscettica e che mi sono subito venuti in mente attraversando a piedi il “muro” – che muro non è - che divide oggi gli USA dal Messico, oggetto di polemiche infinite e cavallo di battaglia di Donald Trump nella sua crociata anti immigrazione.

Anche qui il passaggio sotterraneo, anche qui due mondi fisicamente vicini ma diversi e distanti, divisi da un alto sbarramento d’acciaio sottile ma che come una lama taglia in pochi metri due mondi opposti che si fronteggiano.

Al netto delle polemiche serve un pizzico di storia, magari per ricordare che il muro non è di oggi né una invenzione di Trump ma – soprattutto nella parte verso la costa – fu iniziato già nel 1990 durante la presidenza di George Bush, quando lo stato della California ( di solito a forte prevalenza democratica) elaborò una strategia di “prevenzione attraverso la deterrenza” in base alla quale iniziò a costruire il primo tratto di muro di 23 chilometri che fu terminato nel 1993.

L’anno dopo - sotto la presidenza del democratico Clinton - la barriera fu rafforzata e presidiata in modo semi- permanente dalla polizia di frontiera.

Il confine tra USA e Messico è lungo infatti 3.000 chilometri, la gran parte dei quali in pieno deserto. Nel 2003 ci fu una escalation dei passaggi che in soli sei mesi raggiunsero la cifra di 660.390 persone, con almeno 43 morti di stenti nell’attraversamento della frontiera lungo il tratto che corre nel deserto di Sonora.

Proprio a seguito di questa situazione il senatore repubblicano della California Duncan Hunter presentò una articolata proposta di legge per rafforzare le barriere prevedendo una serie di costruzioni fisse per 1.123 chilometri, legge che fu approvata dal Senato degli Stati Uniti il 17 maggio 2006 e ratificata dalla Camera dei Rappresentanti il 14 settembre dello stesso anno. Pochi sanno – soprattutto in Italia – che quella legge passò a larga maggioranza e che votarono a favore anche una certa Hillary Clinton e l’allora senatore dell’Illinois Barack Obama.

Trump vuole oggi un rafforzamento delle barriere, ma soprattutto la posa di sensori elettronici - anche nel sottosuolo - perché lungo il confine sono nate diverse città messicane con le case addossate alle barriere e che con la costruzione di tunnel sotterranei oltre alle persone ( anche questo è un aspetto poco conosciuto) permettono soprattutto il passaggio in USA di ingenti quantità di droga.

La barriera fissa parte dal Pacifico con pali di ferro che dividono una spiaggia, segue poi le sponde del Tijuana River, un fiumiciattolo che - salvo quando è in piena ( raramente, visto che nella bassa California piove molto poco) - è di fatto una fogna a cielo aperto ma che pure lui ( il fiume!) decide di passare in USA a pochi chilometri dalla foce e non fa quindi da confine naturale, ma è attraversato più volte dalle barriere.

Anche questa è una curiosità: il confine con il Messico è infatti una linea retta dall’oceano al deserto fino a Yuma, poi scende lungo il sempre più arido letto del fiume Colorado ( che quasi per tutto l’anno si secca definitivamente prima di arrivare alla Baia California) e infine se ne va dritto fino al Texas tagliando in due deserti e montagne, come fu fissato oltre cento anni fa da un tratto di penna sulla carta geografica, con poca logica ma piuttosto figlio del trattato di pace quando gli Usa vinsero la guerra contro il Messico e si annessero il Texas e altri territori verso sud.

Sulla costa del Pacifico si frontegiano da una parte l’americana San Isidro e dall’altra la messicana Tijuana che, molto più grande e prospicente su di un colle, sembra da lontano fisicamente sovrastare e seppellire gli yankee.

La realtà è ben diversa e la noti appena ti avvicini da San Diego con l’interstatatale 805: di qui prati verdi con le aiuole ben curate, di là i palazzoni di una anonima periferia urbana che si perdono in un mare di costruzioni basse e senza alcun piano regolatore, caotiche e sporche. Per passare in Messico non c’è alcun problema: parcheggi vicino ad uno dei tanti duty free, segui le indicazioni di un passaggio pedonale, passi un tornello, entri – con nessuno che controlli - in cinquanta metri di “terra di nessuno” e, passato un altro tornello, ti ritrovi già in Messico dove un addetto doganale svogliato ti guarda in faccia, firma un modulo e ti fa passare. Ti ritrovi così nel pieno del centro urbano di Tijuana, una specie di Scampia napoletana con le case gomito a gomito al confine ( qui sotto, dicono, ci sono o ci sono stati più cunicoli per attraversarlo che topi nelle fognature) ma è una città visibilmente in crisi.

Lo è, non per i migranti - che magari ci vengono speranzosi prima o poi di riuscire a passare “di là” ma perché sono gli americani che non vengono più a far compere “di qua” soprattutto alcolici, sigarette e medicine di base, viagra o profumi a basso costo più o meno taroccati. Il problema, infatti, non è entrare in Messico, ma ritornare poi negli USA ( anche se sei cittadino americano o turista) perché ormai da mesi i controlli sono volutamente lenti e si creano code sia sull’autostrada che per i passaggi pedonali.

Solo pochissimi – quelli che hanno una sorta di carta verde transfrontaliera - superano velocemente la fila, altrimenti l’attesa è lunghissima per tutti e a seconda dell’ora può durare anche mezza giornata.

Per chi è in regola le procedure sono semplici ( per gli europei con l’Esta basta avere sul passaporto il timbro di un precedente ingresso negli USA negli ultimi 90 giorni) ma la fila che si accumula è comunque sterminata con centinaia di persone in attesa sotto lunghi camminamenti sopraelevati e coperti perché il sole - soprattutto d’estate - è sicuramente potente.

Mentre aspetti il tuo turno ( i messicani passano soprattutto per acquisti di piccoli elettrodomestici o prodotti tecnologici), dall’alto vedi le due facce del continente: duty free e centri commerciali a nord, una caotica e maleodorante città verso sud.

Appena più oltre, verso est, il confine comincia ad attraversare centinaia di chilometri di deserto sassoso con una strada che corre lungo le barriere fisse dalla parte messicana ed una sempre più larga terra di nessuno da parte americana e dove si moltiplicano i congegni elettronici per segnalare chi passa. Molti chilometri del tratto più interno del confine sono però tuttora transitabili a patto di non essere intercettati dalle pattuglie di confine e spesso con la necessità di attraversare lunghi tratti di deserto.

E’ qui – secondo l’amministrazione Trump – che prospera il traffico sia della droga che dell’immigrazione illegale e dove sarebbe necessario costruire nuove barriere di separazione.

Ma come la pensano gli americani?

Dipende molto non solo dalle opinioni politiche ma dal luogo di residenza: in California la presenza ispanica è quasi prevalente e moltissimi si lamentano dell’eccessiva presenza di persone senza permesso e chiedono nuove misure.

Diversa l’impressione negli stati del Nord Est dove pochi parlano spagnolo, c’è poca immigrazione sudamericana e quindi minore è l’interesse per il confine meridionale.

Un ulteriore problema è che le tendenze immigratorie non sono tanto dal Messico ma soprattutto dai paesi del Sud e Centro America, come dimostrato dalla recente marcia di migliaia di persone dal Guatemala, bloccate alla frontiera messicana, ma che in parte si sono poi comunque infiltrate in Messico e quindi premono alla frontiera.

Disperati spesso nelle mani dei trafficanti, fotocopia della situazione del Mediterraneo, ma con deserto e non il mare a dividere un continente.

“Siamo tutti americani” campeggia in una enorme scritta sulla collina di Tijuana, ma la diversità economica e di vita tra le due realtà è stridente e il nuovo filo spinato di acciaio inossidabile che brilla alla sommità del muro fa da contrasto al metallo arrugginito sottostante.

Vista da vicino la barriera sembra l’alta fiancata di una nave in disarmo, ma corre a perdita d’occhio lungo la frontiera.

E’ un taglio netto, una divisione, una eloquente conferma che le due Americhe sono profondamente diverse e divise, ma soprattutto che non riescono a parlarsi.