«La violazione della Costituzione è diventata una pratica del potere. Non ci si preoccupa nemmeno più di nasconderlo: è un modo per vantare la propria supremazia politica». Luca Casarini non vuole parlare dell’indagine della procura di Agrigento, che lo accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver portato a Lampedusa, con la Mare Jonio, 49 migranti salvati a largo della Libia. Ma non risparmia critiche e accuse al ministro dell’Interno, Matteo Salvini, reo di aver «trasformato» il Viminale in un «ufficio di propaganda». A chi lo rimprovera di voler solo fare politica risponde secco: «le mie sono azioni che salvano la vita, al contrario di chi rimanda lascia morire le persone in mare». E non si pente di nulla: «non è che rifarei tutto - racconta al Dubbio - è che questo è proprio il mio modo di vivere».

Giuliano Ferrara dice: “viva Casarini”. Come l’ha presa dopo essere stato a lungo un suo “nemico”?

Mi ha fatto piacere, perché Ferrara è anche un bravissimo scrittore, arguto e assolutamente interessante da leggere anche quando non sono d’accordo con lui, cosa che è capitata molte volte. Mi ha fatto piacere non tanto per i riconoscimenti che mi fa, ma perché ha evidenziato che questa destrutturazione dello Stato di diritto, dei fondamenti paradigmatici della democrazia, è arrivata ad un livello altissimo, che Ferrara riesce a segnalare perfettamente. Siamo a un punto di corruzione - e non parlo solo solo dei 49 milioni di Salvini, ma di corruzione filosofica, culturale e politica, nel senso della pòlis talmente alto, da parte di chi ricopre cariche istituzionali, che c’è un paradosso: le persone bollate come coloro che disobbediscono alle leggi sono le prime che cercano di farle rispettare. Convenzioni internazionali, diritti umani e Costituzione sono elementi sotto attacco da parte di questa forma di distruzione della dinamica democratica. Non mi stupisce che una persona intelligente come Ferrara lo segnali, è anche indicativo del fatto che ormai questo è il punto da discutere, al di là delle biografie personali.

Dove stiamo andando?

In un posto molto pericoloso, un posto dove non c’è la democrazia.

Ma perché il popolo sembra dare ragione a questo stato di cose?

Ferrara dice che ha sempre aborrito l’idealismo. Una cosa di cui io ho sempre avuto paura è invece il termine popolo. Anche quando tifa per me. Perché il popolo descrive una massa informe che si adatta al vincitore, solitamente, e può portare dei disastri dal punto di vista culturale, vere e proprie tragedie umane. Di fronte ad un autoritarismo becero, miserabile e anche vergognoso, di fronte a ciò che Rodotà chiamava sondocrazia, una forma di subordinazione e utilizzo del sondaggio e dell’umore popolare come unico metro per la politica, non mi stupisco che il popolo risponda presente, perché viene educato da popolo.

A che tipo di società pensa lei invece?

Ad una società fatta da una dinamica collettiva e anche individuale, dove si possa essere una singola persona e parte di una comunità, con uno scambio continuo tra il comune e l’individuo. È questo quello che dobbiamo cercare, perché questo libera anche creatività e capacità critica rispetto a quello che si vede. Quando si muove questo concetto di popolo è sempre un casino, perché alla lunga porta a forme di dittatura, idolatria, personalismo, l’uomo solo al comando.

È quello che sta accadendo adesso?

Stiamo andando in questa direzione, sempre tenendo conto che poi c’è un aspetto diverso rispetto al passato: la velocità. Questi uomini soli cambiano rapidamente, nascono e muoiono nelle loro fortune e disgrazie. È la velocità dei media che decide i tempi. Quello che si sedimenta è il comportamento del popolo e questo mi fa paura. Questi piccoli uomini - e sottolineo che riguarda il genere maschile - miserabili e vigliacchi, che rapidamente passano e saranno dimenticati e schifati dagli stessi che ora li adorano, il vero danno lo fanno sedi- mentando comportamenti e dinamiche culturali, immaginari. Ciò che creano a livello collettivo resta. Mi ha colpito molto che chi si dichiara eroe del popolo rifiuti di andare ad un processo, trincerandosi dietro l’impunità, che è il segno del sovrano. È un modo per dire: io non sono uguale agli altri.

Cos’è per lei la disobbedienza?

Quando ci sono leggi ingiuste è giusto disobbedire. Ma anche questa disobbedienza, che ha accompagnato la mia vita pubblica ma anche personale, è sempre stata frutto di un’obbedienza a qualcosa di più grande, ad un principio costituzionale, alla dichiarazione universale dei diritti umani, alle leggi internazionali. Mi riferisco a quello per valutare se una legge è giusta o ingiusta. Al di là degli aspetti materiali, il tema è scoprire la fonte da cui derivano alcune nostre valutazioni della vita. La Costituzione è una specie di guida rispetto a dei principi generali che devono sempre essere tenuti in considerazione, al di là dei governi che cambiano.

Lo è ancora?

Ora il tema è proprio questa forma di violazione di leggi costituzionali, che è diventata una pratica del potere, probabilmente anche per la velocità e l’intensità della distruzione del livello democratico in atto. Non ci si preoccupa nemmeno più di nasconderlo: è diventata una pratica pubblica, su cui vantare anche la propria supremazia politica. Viene rivendicata, senza paura, e rimane impunita.

Quindi lei cerca “l’obbedienza”?

In questo momento sto cercando di fare rispettare delle leggi, qualcosa che dovrebbe appartenere ontologicamente alla dinamica di una politica istituzionale. La società civile si organizza per coprire dei vuoti lasciati dalle distruzioni del diritto ad opera delle istituzioni.

Cosa sono le istituzioni oggi?

Scatole vuote. Diceva Deleuze che la differenza tra uno Stato autoritario e la democrazia sta nel rapporto tra leggi e istituzioni. Uno Stato autoritario ha tante leggi, ma poche istituzioni, mentre uno stato democratico ha molte istituzioni e poche leggi. Guardiamo la fotografia dei nostri sistemi: siamo in presenza di istituzioni che sono solo palcoscenici di questo o quel politico, non sono più luogo di incontro tra conflitti sociali da trasformare in modificazioni che rispondano a dei bisogni. Sono ufficio di propaganda di questo o quel ministro. Il metro di giudizio del lavoro di un Parlamento, ormai, è quante leggi fa. Noi ne siamo pieni, ma non ci si chiede che tipo di leggi siano. La normazione continua è soltanto l’alibi per nascondere una tendenza a non organizzare nulla nella società, a lasciare tutto nel caos.

Per molti la sua missione nel Mediterraneo è un modo per contrastare politicamente Salvini, che le ha dato del pregiudicato...

Come si dice? Il bue che dà del cornuto all’asino. In termini di pendenze con la giustizia dentro quel Parlamento ne abbiamo a iosa, ma non mi sognerei mai di dire a qualcuno “sei pregiudicato”. Mi chiederei, piuttosto, per cosa ti hanno condannato: cose come razzismo, sequestro di persona o furto di 49 milioni pubblici sono molto diverse dal recupero di una casa pubblica affinché non andasse in rovina. Questo meccanismo dozzinale e anche ignorante dell’uso dei termini la dice lunga sui personaggi. Ogni dichiarazione è sempre un volantino, non è la parola di un uomo delle istituzioni, ma di un militante sfegatato. Ma io li conosco, ne ho visti passare tanti, andranno tutti a sbattere contro il fatto che, in realtà, quello che stanno costruendo è una tigre di carta. Perché per le cose solide bisogna sudare.

Anche lei ha fatto politica...

Ho fatto anche io errori, sono criticabilissimo, ma quel che ho fatto l’ho fatto consapevolmente e non me ne vergogno. Mentre loro devono vergognarsi, perché prima o poi la storia chiederà il conto.

Perché ha scelto di andare per mare a salvare i profughi?

Sono diventato un “marinaio” per indignazione. Funziona così, è una scelta per prima cosa personale. Ovviamente ho accentrato l’attenzione, ma sono una goccia rispetto a cos’è Mediterranea, una realtà enorme di persone, coraggio e cuore. Non ce la facevo più a stare a guardare e ce l’ho messa tutta per provare a dare umilmente un piccolo contributo. Almeno potrò dire da che parte stavo. Se non riusciamo più a tradurre l’indignazione in azione è un casino per la democrazia, che non è statica, è in movimento, è sempre sottoposta a tensioni. Non è una cosa sottoposta a decreto.

Non c’è più indignazione?

Oggi abbiamo questo surrogato per l’indignazione che sono i social. Ma è una forma di anestesia sociale e politica. Se si trasformasse in azione cambierebbe la società.

Ciò che ha fatto lei, trasformarla in azione.

A me è capitato così. Non ce la facevo più a vedere una strage continua e soprattutto veder godere della sofferenza di altri esseri umani. Considero anche mio quel mare.

È un’azione politica?

La vogliono considerare così? Bene, ma un’azione politica che salva delle vite ed è il contrario di una che fa morire. Se è un’azione politica questa lo è anche rimandarli in Libia nei campi di concentramento o farli morire in mare.

Per Salvini la Libia è un porto sicuro, concetto che ha ribadito anche ieri.

Il Viminale afferma il falso per coprire gli orrori, i respingimenti e le gravissime violazioni di legge che sta commettendo. Ovviamente noi di Mediterranea lo affermiamo citando tutti i rapporti Onu. Ecco cosa intendo quando affermo che il Viminale si è trasformato in ufficio di propaganda. Altro che rispetto delle istituzioni: sono solo un megafono.

Perché c’è tutto quest’odio per i migranti?

Sono solo una grande arma di distrazione di massa, sono un capro espiatorio, perché non c’è nessuna invasione. Serviva da un punto di vista di marketing elettorale, per coprire i gravi problemi della società. Anni fa si è deciso di costruire la spettacolarizzazione della frontiera, concentrando 4mila migranti a Lampedusa, perché ciò consentiva di costruire la scena dell’invasione. Chi non è capace di governare, di affrontare crisi e disoccupazione, fa solo propaganda, prendendo lo stipendio senza mai essere efficace. Se tu crei un’arma di distrazione di massa hai fatto bingo, perché tutti si concentrano sul nemico che tu costruisci. E questo costruisce anche il via libera ai peggiori istinti insiti in noi, perché c’è qualcosa di ontologico nel vedere rispuntare cose così tristi dopo tanti anni.

A quasi 20 anni dal G8 cos’è cambiato?

Che ho quasi 52 anni e poi credo sia cambiato un po’ il mondo. A volte diciamo “ve l’avevamo detto”, ma in realtà è molto diverso anche da come lo immaginavamo. Certo, la strada è quella che avevamo cercato di descrivere, però è vero anche che c’è stata una evoluzione delle cose che non potevamo immaginare. Da tutti i punti di vista.

Cos’è cambiato per lei?

È aumentata la consapevolezza che bisogna avere umiltà e determinazione, termini che devono stare sempre insieme, perché è certo che se non si combatte per i propri ideali, per un sogno che serve anche altri, non si va da nessuna parte. E bisogna capire che le cose sono complesse e si evolvono anche in maniera che non immaginiamo, nonostante il nostro tentativo di semplificarle per affrontarle.

Rifarebbe tutto?

Non è che rifarei tutto, mi sa che questo è proprio il mio modo di vivere. Poi ho fatto un casino di cavolate, ma vado a testa alta: non ho fatto niente di cui vergognarmi. Ho fatto errori, ma sto bene come sto, anche se additato dal potere come un nemico. Forse mi farebbe più specie se il potere mi dicesse che sono un bravo ragazzo.