Un quarto di secolo fa, 27 e 28 marzo 1994, gli italiani andavano a votare, per la prima volta dal 1948 con una nuova legge elettorale maggioritaria e non proporzionale. Nei due anni precedenti la prima Repubblica era franata di colpo.

Non c'era dunque solo una nuova legge elettorale: l'intero quadro era diverso. Dei partiti e dei simboli che avevano occupato a distesa il campo per oltre quarant'anni non ce n'era più nemmeno uno. L'esito di quelle elezioni sconvolse non solo l'Italia ma mezzo mondo. Le vinse Silvio Berlusconi, capitano d'industria rampante, padrone di tre televisioni nel ballottaggio per il sindaco di Roma cogliendo l'occasione per far capire cosa aveva in mente. Col tempo sono venuti fuori i particolari di una gestazione che durata alcuni mesi: l'idea partorita dal politologo e futuro ministro Giuliano Urbani che la propose direttamente al signore d'Arcore, l'interesse dell'industriale messo con le spalle al muro dalla caduta dei suoi protettori politici, primo fra tutti Bettino Craxi; le divisioni nello stato maggiore Fininvest; la trattativa fallita con il Pds nell'estate del 1993, con gli uomini di Veltroni provarono a garantire le aziende di Berlusconi in cambio della sua rinuncia a entrare in politica; l'ultimatum di Berlusconi ai partiti centristi e di destra: «O riuscite a unificarvi per sbarrare la strada al Pds o mi candido io» ; la nascita dal notaio di Forza Italia, il 18 gennaio 199. Infine la ' discesa in campo'.

Nella politica mondiale di 25 anni fa Silvio Berlusconi rappresentava un'anomalia assoluta.

Aveva fondato un partito che era di fatto sua proprietà privata e mirava a strutturarsi sul modello dell'azienda. Riapplicava alla politica i canoni della pubblicità e di un quotidiano oltre che di un variegato impero aziendale. Sarebbe stato lui il primo presidente del Consiglio della nuova Repubblica.

er molti fu uno shock al cui onfronto persino lo smarrimento di fronte al successo dell'M5S e della Lega nel 2018 impallidisce. L'outsider era ' disceso in campo', per usare le sue stesse parole, appena due mesi prima, il 26 gennaio, con un videomessaggio registrato e spedito a tutte le tv: la sua era stata una guerra lampo.

Certo l'annuncio non era stato una sorpresa, la candidatura del Cavaliere alla guida della nuova Italia era nell'aria. Ma solo da poche settimane: dai primi giorni del dicembre 1993, quando Berlusconi si era schierato con Gianfranco Fini conto Francesco Rutelli televisiva e la spina dorsale era proprio il ramo aziendale che si occupava dell'advertisement, la Publitalia di Marcello Dell'Utri. La selezione dei candidati fa sembrare i pur discutibili metodi pentastellati un esempio di accuratezza: porte aperte a chiunque fosse ritenuto adeguato, per un motivo o per l'altro, a essere smerciato facilmente.

Era davvero ' roba dell'altro mondo', non solo in Italia ma ovunque, Stati Uniti inclusi. In un quarto di secolo le cose sono cambiate. Il famoso e pregiato ' laboratorio Italia' ha dimostrato ancora una volta la sua precisione. Il tempo ha rivelato che Silvio Berlusconi non era un'anomalia a metà tra l'inquietante e il grottesco, come fu vista allora la sua trasformazione repentina in leader politico, ma un precursore. Oggi un plutocrate apparentemente improbabile quanto e più di Berlusconi è presidente degli Usa. Il presidente francese Emmanuel Macron ha creato alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2017 un partito tanto ' suo' da averlo battezzato con le iniziali del suo nome e cognome, ' En marche'. I metodi propri della pubblicità riapplicati sono diventati la norma ovunque.

Eppure Berlusconi è ancora, nonostante il suo modello sia dilagato ovunque, un'anomalia. E' la sua presenza a determinare lo stallo in cui si trova la politica italiana. La forza propulsiva dello strano connubio nato, per forza molto più che per amore, dopo le elezioni del 2018 tra Lega e M5S è in fase di palese esaurimento. I punti di contatto, oltre che di ' contratto', i soci se li sono giocati nei primi mesi di governo: ogni giorno di più emergono ora le differenze, con effetto potenzialmente paralizzante sull'azione di governo. Di converso a ogni tornata elettorale si dimostra più chiaramente la propensione di una parte maggioritaria dell'elettorato per un governo di centrodestra.

Tuttavia la coalizione che governa regioni chiave come la Lombardia e il Veneto e che ha vinto sei tornate elettorali regionali dopo le politiche del marzo 2018 non si propone per il governo nazionale perché proprio il leader che sarebbe senza dubbio il candidato premier, Matteo Salvini, è contrario.

Il problema si chiama Silvio Berlusconi. Un leader che ha condizionato la politica italiana più di chiunque altro per 25 anni e che ha rapporti e conoscenze strutturate nelle capitali di tutto il mondo è troppo ingombrante per relegarlo nella parte di comprimario. Inoltre la sua leadership comporterebbe la presenza di un gruppo di dirigenti azzurri che creerebbero a un Salvini premier problemi a non finire. Un leader ormai attempato, sconfitto alle elezioni, condannato in via definitiva ed espulso dal Parlamento sarebbe, ovunque nel mondo, un leader del passato, inesorabilmente fuori gioco. Berlusconi no.

Lui resta un'anomalia in virtù di una serie di circostanze forse irripetibili, mantiene la guida di un partito che è sua proprietà privata e resta nel campo in cui discese un quarto di secolo fa. Ha deciso di sfidare l'anagrafe, il calcolo delle probabilità e la famiglia ricandidandosi alle elezioni europee. Se il voto dimostrerà che ha ancora carte da giocare Salvini dovrà decidere cosa fare nel prossimo futuro, non potendo proseguire a lungo con il piede in due staffe. Quello che spera è che invece il verdetto delle urne sia tanto spietato da costringere il Cavaliere ad arrendersi e a lasciare la politica, oppure da provocare.