Non possedeva il piglio demoniaco di Goebbels, l’esoterica pazzia di Hess, la sadica ferocia di Himmler, il cupio dissolvi di Goering, il fiuto politico di Bormann. Tra i gerarchi del Terzo Reich Adolf Eichmann era senza dubbio il meno appariscente e il più ordinario, un uomo normale, nelle movenze, nelle parole, nei pensieri, normale ai limiti della mediocrità. Il burocrate dell’Olocausto, colui che ha pianificato e messo in opera la macchina della Soluzione finale era un boia invisibile, e a vederselo davanti, con quel temperamento mite e la buona educazione nessuno avrebbe creduto di incrociare il principale responsabile dello sterminio di sei milioni di ebrei europei.

Dopo il suicidio del fuhrer e la caduta del regime riuscì a sottrarsi alla giustizia e fu uno dei grandi assenti al processo di Norimberga assieme al dottor Mengele e Bormann. E dire che nel ’ 45 lo avevano catturato gli americani, ma lui si presenta con il nome di “Otto Eckmann”, nessuno lo riconosce nessuno indaga; la sua vita vissuta da da burocrate fantasma è come una pellicola protettiva che lo rende ancora una volta invisibile.

E quando l’anno successivo fugge di prigione nessuno si danna più di tanto per ricercare quell’anonimo soldato tedesco. Si era rintanato in Argentina con un’altra identità: Ricardo Klement, nome che non cambierà più fino al giorno del suo rapimento da parte dei servizi israeliani. E’ l’ 11 maggio 1960 quando viene catturato da un commando del Mossad, il giovane uomo che per primo lo afferra per il braccio è proprio il leggendario Rafi Eitan, scomparso sabato scorso all’età di 92 anni.

Neanche il tempo di accorgersi di quel che sta succedendo che si ritrova incappucciato dentro un’automobile, lo nascondono in un appartamento e gli chiedono di identificarsi: «Mi chiamo Riccardo Klemet» dice senza troppa convinzione tanto che dopo qualche minuto confessa: «Sì, sono io, Adolf Eichmann». Il 21 maggio con un volo segreto viene trasportato sul suolo israeliano e due giorni dopo il premier David Ben Gourion annuncia pubblicamente la sua cattura. Il processo, che va in scena nell’aprile del 1961 è un evento mediatico mondiale che svela al mondo i dettagli più crudi del genocidio; nel corso delle udienze il contabile della Shoah si difende con tenacia, provando a sfruttare la sua mesta aura da travet, attenua le sue responsabilità, si presenta come un mero esecutore, ammette di aver organizzato le deportazioni ma nega di essere stato a conoscenza degli orrori dei campi di concentramento. A tratti è talmente convincente nel ruolo del funzionario zelante ma in fondo ignaro del contesto, che la filosofa Hannah Arendt, ( seguì il processo per il New Yorker), gli cuce addosso una definizione rimasta celebre: “la banalità del male”. Per la Arendt Eichmann «non è né un Macbeth né uno Iago ed è lontana da lui l’idea di commettere il male per principio, il suo zelo in sé non era criminale e lui non è un demonio». Se la Arendt coglie con finezza «l’assenza di pensiero» di un uomo che diventa «il più grande criminale della sua epoca», non mette bene a fuoco l’antisemitismo primordiale di Eichmann come verrà poi ampiamente dimostrato dagli storici. Fin dalla metà degli anni 30 si è occupato della deportazione degli ebrei e di questo si è occupato con mesto fervore fino all’ultimo giorno di vita del Reich.