Il premio di consolazione è la medaglia d’oro: il Movimento 5 Stelle diventa il primo partito in Lucania, con poco più del 20 per cento, nonostante la sonora sconfitta elettorale. Sì, perché il gradino più alto del podio non basta a nascondere la debacle elettorale di una forza che si piazza terza, 22 punti in meno del centrodestra e 13 in meno rispetto al centrosinistra. Eppure, il capo politico, Luigi Di Maio, preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno, valorizzando la prestazione individuale del partito, ben al di sopra del traguardo raggiunto alle scorse Regionali del 2013: il 9 per cento. Meglio evitare ogni confronto con le Politiche del marzo 2018, quando i grillini fecero il pieno in Basilicata, portando a casa un sonoro il 44 per cento dei voti.

«La verità è che abbiamo battuto tutte le liste, anche quelle con gli impresentabili dentro, anche quelle con i portavoti di Pittella», rivendica su Facebook Di Maio, rispolverando il vecchio cavallo di battaglia degli impresentabili candidati nelle altre coalizioni. Ma mentre il mito dell’onestà in un solo partito sfuma ogni giorno di più, la dirigenza pentastellata fatica a individuare nuovi obiettivi per scaldare i cuori dell’elettorato. «Considerando il vero tracollo di Pd ( che perde ben 16 punti rispetto al 2013) e Forza Italia, se andassimo al voto alle elezioni politiche domani potremmo anche rivincere in quella regione, visto che non esisterebbero le miriadi di liste civetta che hanno assorbito centinaia di voti soprattutto nei Comuni di provincia», insiste il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, puntando il dito contro le liste civiche con cui lo stesso Movimento vorrebbe allearsi a livello locale.

I grillini, in realtà, pagano lo scotto dei primi nove mesi di governo a trazione salviniana. Un lasso di tempo sufficientemente lungo per far perdere identità a un partito nato per distruggere le vecchie forze politiche, ma arrivato a Palazzo Chigi grazie a un contratto sottoscritto col partito più antico presente in Parlamento. Perché se è vero che tre indizi fanno una prova, dopo i fallimenti di Abruzzo, Sardegna e Basilicata Luigi Di Maio e Davide Casaleggio dovrebbero chiedersi cosa non sta funzionando. E cambiare le ultime regole auree del grillismo delle origini, come il limite dei due mandati e il divieto alla formazione di coalizioni, potrebbe non essere la risposta più adeguata. Il problema, semmai, come segnalano le minoranze interne al Movimento, sarebbe la deriva a destra imposta dal capo politico, così tanto schiacciato sulle posizioni radicali del Carroccio in materia di migranti da invocare l’immunità parlamentare per il suo segretario.

Non ci sono più alibi né capri espiatori, come era accaduto a febbraio, dopo la disdetta abruzzese, quando i vertici pentastellati addossarono la responsabilità del fallimento sul solo Alessandro Di Battista, richiamato dal lunghissimo “esilio” sudamericano proprio per sostenere la campagna elettorale. Ma per la coppia dei “neo fondatori” del Movimento, i toni del Dibba sono troppo aggressivi, inadatti ormai a rappresentare un partito con responsabilità di governo. Risultato: lo scapigliato del grillismo sparisce dai radar, risentito soprattutto per l’atteggiamento dell’ex compagno di avventure diventato troppo potente nei mesi del suo peregrinare oltre oceano. «Il Movimento non può fare a meno di Alessandro Di battista», esce adesso allo scoperto Gianluigi Paragone, convinto che per «vincere il M5S deve tornare ad essere cazzuto. Sulle banche, sull’ambiente dobbiamo tornare a prendere decisioni importanti. Sulla Tap le cose non vanno come avevamo detto in campagna elettorale», argomenta il senatore pentastellato, girando il coltello nelle piaghe delle contraddizioni movimentiste.

E a Di Battista sembra rivolgersi anche Di Maio in un passaggio del video che posta su Facebook per commentare il risultato elettorale. «Sono le persone che non hanno mai mollato che determinano il risultato del movimento», dice il capo politico, prima di consegnare quello che sembra essere a tutti gli effetti un appello al vecchio amico: «Questo è il momento di non mollare, non ci sono viaggi da fare. Vedo che qualche portavoce ha paura di andare in televisione… questo è il momento di combattere», aggiunge il vice premier.

Dibba per ora continua a tacere, in attesa, forse, che qualcuno, ai piani alti del partito, gli porga formalmente le sue scuse.