L’aula dedicata alle conferenze si chiama “gymnasium”, che del nome mantiene anche gli arredi: spalliere e pertiche su parquet da palestra degli anni Sessanta. Fuori, i passi vengono attutiti dal ghiaino bianco e nascosti dal fruscio di siepi e cipressi.

L’angolo bucolico, protetto come tutti gli edifici padronali romani da un alto muro di cinta, è uno spicchio rubato alla collina dietro il Vaticano, poco sopra la trafficata via Gregorio VII. Qui, tra le mura di pietra chiara di Casale di San Pio V dove l’omonimo papa ebbe la visione della vittoria nella battaglia di Lepanto, ha sede un ateneo dal nome moderno: Link Campus, già Link Campus University of Malta, fondata nel 1999 come filiazione dell’Università di Malta e dal 2011 università privata presieduta dal democristiano e sette volte ministro, Vincenzo Scotti.

Proprio questo nome, Link Campus University, figura insistentemente nei curriculum di almeno un paio di ministri e sottosegretari del Movimento 5 Stelle, a partire dalla ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, vicedirettrice del master in intelligence e sicurezza. Qui, nel “gymnasium” appunto, si tiene un ciclo di seminari dal titolo evocativo di “Grande è la confusione sotto il cielo...”, relatore: Massimo D’Alema. Verrebbe da richiamare per intero la frase di Mao Tzetung: “... dunque la situazione è eccellente”.

Che cosa ci faccia il leader maximo, il primo e unico comunista a diventare presidente del consiglio, la nemesi della rottamazione renziana, nell’università che ha adottato la classe dirigente grillina, lo spiega chi lo introduce: «Massimo D’Alema qui è professore». Lapalissiano.

E ora il professor D’Alema è chiamato a spiegare alla classe del laboratorio di Studi Internazionali e ad un gruppo di studenti di liceo le crisi internazionali, le sfide, i protagonisti e soprattutto le opportunità di un periodo storico che lui stesso, in premessa, chiama «di interregno». Il titolo del seminario di ieri è “La caduta dell’Occidente” e D’Alema, con un sorriso sottile, lo presenta appigliandosi a Gramsci: «La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati».

Niente slide, solo appunti ordinati scritti a mano su un blocco bianco, D’Alema pone le premesse, analizza i soggetti, teorizza e poi fa sintesi. Sempre in piedi, con la camicia azzurra rigorosamente senza cravatta, D’Alema è la versione rilassata di se stesso. Ininterrotto nel suo argomentare incalzante, applaudito compostamente da studenti che scrivono sui loro block notes, professori venuti ad ascoltare un docente anomalo e gli organizzatori dell’evento che si scambiano strette di mano. Partendo dall’assunto che «nel 1915 l’Europa rappresentava il 25% della popolazione mondiale, con un’età media di 30 anni» e che ora è appena il «10%, età media 44», D’Alema disegna una società europea «invecchiata, dunque poco dinamica e attanagliata dalle paure», che si trova a veder strutturalmente mutato il suo ruolo nello scacchiere mondiale. Il problema insoluto della leadership occidentale è chiaro: «Come gestire il declino in modo che non abbia effetti catastrofici non solo in Occidente, ma nel mondo?».

Parola chiave di questo declino è una: disuguaglianza, che è il prodotto dell’ «esaltazione acritica dell’economia di mercato e da una globalizzazione priva di guida». La globalizzazione è stata il virus che ha infettato l’Occidente e l’anticorpo che ha curato le economie asiatiche. «In Occidente, i gruppi finanziari più potenti ne hanno beneficiato, i ceti medi lavoratori hanno invece perso sia reddito che diritti e questo ha prodotto una lacerazione nella società». Invece, nelle grandi economie crescenti, «la globalizzazione ha reso i ceti poveri meno poveri e arricchito molto alcune minoranze, generando una sorta di solidarietà sociale».

Premessa necessaria, questa, per portare D’Alema a quello che è stato il suo pallino intellettuale degli ultimi anni e in occasione del bicentenario ( quando D’Alema è volato all’università di Pechino per rileggere “il Capitale”): Karl Marx. «Rileggiamo il pensiero di Marx sul tema della disuguaglianza: nella sua analisi del capitalismo classico dell’Ottocento, la disuguaglianza si produce con lo sfruttamento del lavoro.

Nella divisione tra capitale e lavoro, il capitale si appropria della ricchezza. Ma l’estrazione del plusvalore è un processo sociale negoziale generato attraverso un conflitto: questo fa del capitalismo classico una società trasparente, che genera il lavoratore, ovvero il proprio soggetto antagonista». L’esatto opposto del capitalismo globalizzato, «in cui la ricchezza non è più negoziata e quindi non è più un fenomeno sociale, come non lo è lo sfruttamento del lavoro, che avviene in modo non più trasparente ma mediato. Questo fa sì che la società moderna, a differenza di quella ottocentesca, non generi più la soggettività del suo antagonista». In una parola, diventa società atomizzata e opposta a quella aggregata del secolo scorso.

La dialettica induttiva è tortuosa e incalzante, alcuni studenti scrivono, altri invece osservano e basta l’oratore, che snocciola parole dimenticate e danza tra i concetti col mestiere di chi è risalito sulla bicicletta che più gli piace pedalare.

Sintesi: «Così si sono cancellati gli effetti egualitari di un secolo e questa lacerazione della società riverbera i suoi effetti anche sulla democrazia, che non regge simile livello di disuguaglianza». Con asciutto pessimismo, D’Alema certifica la sparizione dei corpi intermedi, che ha provocato «l’estrema volatilità di un elettorato, incapace di riconoscersi in una leadership strutturata e di lungo periodo e di accettare un sacrificio oggi in vista di un vantaggio domani». Poi definisce il consenso politico come «una misura che si calcola giorno per giorno, con una nevrosi dei sistemi politici e una fragilità delle leadership che devono confermarsi solo nel rapporto mediatico con la società». Il risultato, dunque, è lo svuotamento della democrazia e la constatazione amara che «in un mondo segnato dalla competizione globale, i sistemi autoritari sono più performanti di quelli democratici, per stabilità e selezione di classe dirigente».

Come deve reagire l’Europa, in questo cielo confuso? «Potrebbe ergersi a potenza, nel vuoto lasciato dagli Stati Uniti, solo se fosse in grado di unirsi», e in questo D’Alema rispolvera il suo antico antagonismo con la cancelliera Merkel, il cui lascito politico è «l’enorme ostacolo tedesco alla solidarietà europea». Un ultimo colpo di teatro, allora: col mezzo sorriso che usa per freddare gli interlocutori, D’Alema cita Giovenale: “Massimo è il disonore di chi, per sopravvivere, mette in gioco le sue ragioni”, dunque «L’Europa deve seguire il messaggio di Giovanni Paolo II, che disse ai giovani “non abbiate paura”. L’Europa non abbia paura di difendere il suo patrimonio di valori».

Applausi, stordimento e un vago senso di confusione generato dal climax Gramsci- Marx- Merkel- Giovenale- Wojtyla. Un’unica certezza rimane: Max è sempre grande, è il palco che è diventato più piccolo.