Eppure c’è stato un tempo, anche piuttosto lungo, nel quale metaforici fiori e cuoricini lastricavano il passaggio del duopolio politico più innovativo. Quando i vicepremier venivano appellati con epiteti da monte Olimpo sede degli dei: erano i dioscuri, complici e solidali, tesi a tagliare i legami con le Repubbliche che furono: Prime, Seconde e Terze non importa, basta che finissero in archivio.

Ricordate? “Io e Salvini ci capiamo al volo”, ammiccava tranquillo dagli schermi tv il capo pentastellato. “Io e Di Maio? Una coppia di fatto, ci messaggiamo in continuazione” motteggiava dall’identico tubo catodico il ministro dell’Interno, memore forse dei fidanzatini di Peynet. Ebbene cos’è mai accaduto per far precipitare le cose al punto che Salvini ora gonfia i muscoli: “Se vogliono andare in fondo lo faccio anch’io” e Di Maio si rivolge all’ex moroso appellandolo brutalmente: “È un irresponsabile”?

Certo, c’è di mezzo un’opera da sette miliardi che archiviare come fosse polvere da piazzare sotto il tappeto non si può. Sicuramente gioca la campagna elettorale e il voto europeo di maggio, assurto a spartiacque dei destini dei due leader, del governo stesso e, chissà, anche della legislatura. Inevitabilmente su quel fronte si scaricano tensioni accumulate nei mesi passati nell’atto di governare, esercizio che logora e prosciuga pazienza e disponibilità.

Tutto giusto, tutto vero. Ma se davvero è in gioco - e lo è - il destino di un esperimento politico che non ha eguali in Europa; se sul serio si tratta di chiudere un’epoca e dare all’Italia un volto nuovo e mai sperimentato; se effettivamente è in ballo il “cambiamento” agognato da milioni di elettori che hanno riversato il loro consenso nelle urne premiando M5S e Lega, come è possibile che non si trovi un’intesa capace di allontanare gli spettri di una divaricazione verticale e insanabile che porta a nuove elezioni e chiude l’era, brevissima in verità, del Contratto di governo?

Che la coalizione gialloverde fosse nata sbilenca, che avesse partorito un equilibrio fittizio, che fosse guidata da un presidente del Consiglio privo di una forza politica propria era stato chiaro fin dal primo giorno. Come subito era apparso evidente che a sostenere quell’assetto non ci fosse solo il gradimento del 60 per cento dell’elettorato registrato con assoluta costanza dai sondaggi ma anche l’opera silenziosa e preziosa del Colle, volta a salvaguardare l’unica maggioranza praticabile, punto di riferimento essenziale per affrontare le incertezze dei mercati e arginare gli attacchi speculativi ai conti pubblici.

Adesso quella fase sembra d’improvviso lontanissima, avvolta in una nebbia di malmostosità e sospetto impossibile da dissolvere senza cadere nel precipizio dello scontro dove uno solo può restare in piedi.

In realtà al di là di tutti i documenti, gli studi, le analisi costi/ benefici che finora sono serviti solo a confondere le acque e gonfiarle di veleni, ciò che è venuto meno è il sale del funzionamento democratico, l’ingrediente unico e obbligato che permette al meccanismo politico di funzionare: la voglia prima, e la capacità subito dopo, di saper mediare.

L’esempio più lampante di questo piano inclinato che sta consumando l’esecutivo portandolo ad un passo dal dissolvimento è il ruolo di Giuseppe Conte. La Costituzione all’articolo 95 stabilisce che il presidente del Consiglio “dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei Ministri”.

La conferenza stampa di giovedì scorso - ma ci sono tracce riconoscibili dal momento del giuramento dell’esecutivo - ha dimostrato come questo vincolo costituzionale sia stato disatteso. Si può avere il giudizio che si vuole sull’operato di Conte ma è innegabile che la sua funzione sia stata progressivamente svilita dal gioco di sponda dei due vicepremier e per ultimo annegata negli ultimatum reciproci che Di Maio e Salvini si sono lanciati, lasciando il presidente del Consiglio alle prese con una ricucitura al tempo stesso invocata e resa impossibile.

Non solo. È l’intero serbatoio di possibilità dell’inquilino di palazzo Chigi che viene prosciugato. Se infatti Conte sta zitto, gli viene rimproverato di non esercitare le sue prerogative. Se parla, come appunto ha fatto giovedì sulla Tav, gli viene calata addosso la casacca di uno dei due partiti dell’alleanza, sbilanciando i governo e cancellando, appunto, ogni possibilità di mediazione. In definitiva Salvini e Di Maio stanno usando il presidente del Consiglio come schermo dei loro interessi, pronti senza eccessivi patemi a delegittimarlo o bypassarlo quando le cose si complicano.

Qualunque esecutivo di coalizione non può funzionare in questo modo. Forse sarebbe cosa saggia e appropriata lasciare maggiore autonomia al capo del governo. Fuori dai confini, non a caso, Giuseppe Conte ha guadagnato una non trascurabile né scontata credibilità. Farla evaporare al di qua delle Alpi si rivelerebbe un harakiri incomprensibile.