«Nella fila davanti al gazebo ho incontrato tantissimi compagni, abbiamo parlato di politica, sembrava di essere tornati al Pci», scrive su Fb un giornalista che il Pci lo ha conosciuto davvero. Il commento volante riassume meglio di qualsiasi analisi dotta il clima che si respira intorno al Nazareno, e ancor più tra gli elettori, dopo la vittoria di Zingaretti.

Bersani e D'Alema hanno peccato di impazienza. Se avessero stretto i denti ancora per un po', le primarie di domenica sarebbero state il loro trionfo e un po' lo sono state lo stesso. Il voto, infatti, ha chiesto quasi apertamente non un cambio d'indirizzo ma una retromarcia. Segna il tramonto non di un leader politico come Matteo Renzi, che è ancora vivo, vegeto e deciso restare al centro della scena politica, ma della sua azzardata scommessa come segretario del Pd.

Al momento non arrivano segnali di rientro all'ovile da parte degli scissionisti che diedero vita alla poco fortunata impresa di Articolo 1- Mdp e di LeU e lo stesso Zingaretti avrebbe i suoi problemi nel riaprire le porte al cda della ' Ditta'.

Ma non è un segreto che i fuoriusciti facessero un tifo scatenato per la sua candidatura e nessuno dubita che un modo, più o meno trasparente, più o meno obliquo, per rimettere insieme i pezzi del vaso infranto nell'era Renzi si troverà nell'arco di qualche tempo. Si fanno invece sentire subito gli emarginati che non avevano seguito Bersani nella sua avventura. Riprenderà la tessera Enrico Letta, che aveva abbandonato il partito dopo lo sgambetto col quale il nuovo segretario lo aveva detronizzato da palazzo Chigi.

Concede un'apertura di credito il santo patrono dell'Ulivo, Romano Prodi, e quando informa di sentirsi ora ' Quasi a casa' trova modo di segnalare implicitamente di essersi sentito invece, negli ultimi cinque anni, un homeless della politica.

Goffredo Bettini, eterno kingmaker prima che il ragazzo di Rignano lo mettesse in disparte, ' fratello' per sua stessa ammissione di D'Alema e Veltroni e quanto loro determinante anche se nell'ombra, è il vero regista dell'operazione Zingaretti e ha già ripreso il suo posto di alto consigliere.

I contrastanti giudizi sul governo del più giovane premier della storia patria spingono spesso nella zona d'ombra le valutazioni sulla sua segreteria del Pd, che ha rappresentato invece una sfida persino più estrema e spavalda di quella del governo. Le due partite erano spesso intrecciate ma non sovrapposte e non indistinguibili. Come leader del partito, Matteo Renzi non ha mai nascosto l'obiettivo di modificarne radicalmente i connotati, sia in termini di personale dirigente che di dna politico. Non era solo questione di linea: che un nuovo segretario, tanto più se giovane e irruento, voglia imprimere una nuova direzione al partito chiamato a guidare con un plebiscito, come era successo a Renzi nelle primarie dell'ottobre 2013, è nell'ordine delle cose.

Ma l'ex sindaco di Firenze voleva andare molto oltre: voleva rimodellare completamente i connotati del partito. E l’esaltazione di quei giorni è stata fotografata perfettamente dal nuovo direttore di Repubblica, Carlo Verdelli: «Mai visto un essere umano così felice di essere se stesso. Una felicità così piena e assoluta che però non riesce a essere contagiosa, e forse nemmeno lo vuole». La sua era una rivoluzione articolata su quattro livelli diversi. Il primo, traumatico ma per certi versi il più semplice era generazionale.

Nel partito e nel governo di Renzi l'età contava parecchio. I dirigenti dovevano essere giovani e parlare come i giovani, persino le metafore dovevano essere calibrate per ostentare l'appartenenza a una nuova generazione, e altrettanto dicasi per la scelta dei collaboratori. Una giornalista di mezza età, al termine del colloquio con una ministra ovviamente giovane per il posto di portavoce, si sentì rispondere che come competenze sarebbe stata perfetta ma «purtroppo per noi il brand generazionale è importantissimo».

Il secondo piano, dove lo strappo era il più profondo, era la scelta di tagliare gli ultimi collegamenti con la vicenda del Pci. Il Pds prima e i Ds poi avevano fatto passi da gigante in quella direzione ma senza mai osare la frattura definitiva, quella con la Cgil. Veltroni e D'Alema c'erano andati vicino, avevano probabilmente contemplato l'ipotesi ma si erano fermati un attimo prima del cozzo. Sapevano il conflitto con il sindacato rappresentava un passo senza ritorno e che per una parte sostanziosa del loro elettorato quel passo sarebbe stato troppo. Renzi non si fermò e forse anzi cercò la rottura con il Jobs Act e con la cancellazione dell'art. 18, una bandiera per la stessa base sociale del partito. Nel gruppo dirigente e nella pattuglia di governo il riflesso della scelta drastica di rottura era rappresentato plasticamente: di ex comunisti o anche di ex Ds considerati ancora troppo in continuità con l'elefante rosso quasi non ce n'erano più.

Il terzo strappo fu quello con l'ulivismo. Il Pd era nato con l'ambizione conclamata di superare il polo di centrosinistra sostituendolo con il partito a vocazione maggioritaria ma l'opzione strategica di Veltroni, sconfitta nelle urne nel 2008, era stata di fatto revocata dalla segreteria Bersani, che alle elezioni del 2013 aveva schierato una classica coalizione di centrosinistra, Italia Bene Comune. Renzi riprese l'ispirazione originaria portandola alle estreme conseguenze e senza la furbizia ambigua di Veltroni, che aveva fatto passare il partito unico non come contrapposto all'Ulivo e in generale alle coalizioni, come di fatto era, ma come compimento dell'Ulivo stesso.

In questo modo, ' Walterino', che non a caso è un maestro insuperato nell'arte di cadere sempre in piedi si teneva sempre aperta la via per una retromarcia apparentemente non contraddittoria. Renzi non ha mai avuto queste accortezze. La sua visione era netta: ci si poteva alleare con forze diverse e distanti, come Fi sul piano delle riforme istituzionali e l'effimero Ncd di Angelino Alfano al governo, ma senza commistioni sullo stesso fronte della barricata. Il suo Pd era antiulivista tanto quanto era contrario al Pci e ai suoi derivati.

L'ultimo passaggio era forse il più radicale. Per Renzi il partito aveva quasi esclusivamente il compito di supportare il governo e di fatto esisteva solo in funzione del governo. La dialettica interna era di conseguenza ridotta al minimo. Una ex ministra ed ex dirigente di primo piano dei Ds e poi del Pd che, nel 2013, aveva scelto di non candidarsi accogliendo gli inviti al rinnovamento, rimpiangeva pochi anni dopo la sofferta decisione: «Pensavo che comunque sarebbe stato possibile continuare a fare politica all'interno del partito. Ma all'interno del partito non c'è più niente. Ci sono solo i gruppi parlamentari». Ovvio che, con una visione del genere, Renzi vivesse malissimo la presenza massiccia di deputati e senatori della vecchia guardia, che considerava, senza nasconderlo, solo un ostacolo. Quel disegno di partito è stato sconfitto nelle urne il 4 marzo 2018 e un anno quasi esatto dopo anche dagli elettori delle primarie. Se e quanto sia possibile tornare indietro, come se l'era Renzi fosse solo una parentesi, Nicola Zingaretti lo scoprirà nei prossimi mesi.