Soluzione 40 per cento: la guadagni e da lì la corrente ascensionale ti innalza fin nell’empireo del trionfo, della gloria, del potere. Maledizione 40 per cento: ti fermi a quella soglia e tutti i sogni, tutte le speranze, tutte le ambizioni si frantumano come cristalli presi a martellate. Possiamo rigirarla come vogliamo ma la storia politica italiana è abbarbicata su un numero, una percentuale che fa da discrimine tra vittoria e tracollo. Un Giano bifronte che esalta e condanna con la medesima facilità. Il paradosso è che la percentuale rimane la stessa ma ottenerla non vuol dire nulla, non squaderna alcuna garanzia: infatti può decretare l’apoteosi oppure rovesciarsi nel suo contrario e segnare la disfatta.

Strana la vita, strano il destino. Eppure inesorabile. Proviamo a tracciare una linea immaginaria per unire le vicende e le traiettorie di leader e partiti dal dopoguerra ad oggi e quella percentuale, quel 40 per cento è la bussola per orientarsi, il perno tolemaico cui aggrapparsi e che tuttavia è scivoloso, mellifluo e contraddittorio: esalta o condanna a seconda da quale punto di vista ci si pone. Ne sa qualcosa Matteo Renzi. Il 40 per cento ottenuto alle elezioni europee di cinque anni fa è talmente rarefatto e inebriante da apparire onirico: e invece segnò l’avvio di una carriera tanto folgorante quanto temporalmente ridotta. E non a caso a sgretolarla fu la medesima condizione, il raggiungimento della medesima soglia, insomma un altro 40 per cento ottenuto nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Stavolta col segno politico opposto: non allori bensì cenere, tanta cenere e basta.

Attenzione. La soluzione/ maledizione 40 per cento non vale solo per le elezioni. Ci sono anche i referendum a segnare la stessa impronta: quando l’Italia si divide sui quesiti lo fa 60 a 40. E il secondo è il numero magico, anzi no: la dannazione. Nemmeno centrano Prima, Seconda o Terza repubblica. Prendete Luigi Di Maio: quel 40 per cento di oppositori nella consultazione on line sulla piattaforma Rousseau riguardo il destino giudiziario di Matteo Salvini è una specie di sudario che l’ha avvolto e chissà se e come riuscirà a strapparselo di dosso.

Ma, appunto, è l’intero percorso politico dell’Italia dal 1948 ad oggi ad essere caratterizzato dallo spartiacque del 40 per cento. Superato dalla Dc con un ruggito che ha fatto epoca in quel 18 aprile: 12 milioni e 740 mila voti pari al 48,5 per cento. Sbatabam e tutti a terra. Eppure solo cinque anni dopo, il 7 giugno del 1953, ecco che appare la Cometa dell’Epifania, annuncio di come si strutturerà il miracolo del boom economico e dei riflessi sul Palazzo: la Dc è al 40,1 per cento; Pci e Psi seguono: dimezzato il primo ( 22,60) e annichilito il secondo ( 12,60). Il 25 maggio del 1958, dopo che Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno ha trionfato a Sanremo e la Merlin ha mandato in soffitta le case chiuse, gli italiani vanno alle urne e assegnano allo Scudo Crociato il 42,35 dei voti: siamo lì, la soglia è rispettata. Nel 1968, nel pieno della contestazione e dell’apparire in Occidente del mito rivoluzionario, la Balena Bianca sfiora il traguardo: 39,12. Segno che la soglia magica non ha perso smalto, i cittadini ancora si fidano del baluardo anticomunista; nel mondo diviso in due vogliono rimanere al di qua della cortina di ferro, le bandiere rosse stanno bene dove stanno.

Nessuno lo capisce, però si tratta del canto del cigno. Da quelle elezioni in poi, infatti, il 40 per cento alle politiche diventa un miraggio e mai più sarà raggiunto. Le urne si aprono nel 1972, nel 1976, nel 1979 e la Dc resta sempre al di sotto del limite strategico.

Ma nel frattempo l’Italia è cambiata eccome. La linea di confine la tira il referendum più importante di tutti all’infuori di quello istituzionale tra monarchia e repubblica del 1946.

Stavolta si vota su una legge che cambia verso al Paese simbolo del cattolicesimo e sede del Papato. È la consultazione popolare sul divorzio, approvata dal Parlamento sotto la spinta del socialista Loris Fortuna e brandita come una clava di irrinunciabile progresso modernizzatore da Marco Pannella. Il risultato è clamoroso: vince il via libera alla legge con il 59,26 per cento. Il Si alla cancellazione subisce una disfatta storica, fermandosi - indovinate un po’ - al 40 per cento. Stavolta la soglia non garantisce ovazioni ma al contrario assesta una mazzata a chi ha perso. E tra questi c’è proprio la Dc. Il 40 per cento alle politiche è diventato un miraggio, un traguardo impossibile, una montagna troppo alta da scalare. Contemporaneamente, il 40 per cento nel referendum sul divorzio rappresenta un tornante dopo il quale nessuna marcia indietro risulta più possibile. Ci saranno altre prove e anche altri successi nel segno del Biancofiore. Ma quella sconfitta del partito- perno del sistema, allora guidato da Amintore Fanfani ( il tappo saltato nelle celeberrima vignetta di Forattini) rappresenta la spia di un declino non più arrestabile.

E mentre i cittadini, le forze politiche e i loro capi si guardano attorno, chi per gioire chi per riprendere il filo perduto della matassa, il 40 per cento prosegue inesorabile la sua marcia. Solo che cambia completamente significato, si trasforma in un obiettivo molto agognato e quasi mai raggiunto. Lo prova sulla sua pelle Francesco Rutelli che nella competizione per diventare sindaco di Roma fronteggia il capo missino Gianfranco Fini e dentro di se’ pensa possa essere una passeggiata: impossibile non spianare elettoralmente “il fascista” delfino di Almirante. Invece la torsione della storia non conosce barriere e il 40 per cento è come un lupo in cerca di prede. La legge elettorale per i Comuni è stata cambiata inserendo il doppio turno. Rutelli nella prima manche ottiene quasi settecentomila voti ma si ferma al 39,6 per cento. E qualcuno ancora insiste a dire che la maledizione del 40 non esiste? Fini tocca quota 35,6: assolutamente inverosimile per un esponente della destra.

Al secondo turno Rutelli vince tranquillo: 53,1. Ma il suo competitor ottiene lo strabiliante risultato del 46,9. È il perdente più di successo di sempre: da quel momento comincerà una galoppata che lo porterà alla vice presidenza del Consiglio, alla Farnesina e poi sulla sedia più alta di Montecitorio. Nessun altro, partendo da via della Scrofa, c’è mai riuscito. Anche a cadere rovinosamente in poco tempo, se è per questo. Ma è un altro discorso.

Sicuro? Macché, non è vero è sempre lo stesso. Chi altro, infatti, è capitombolato altrettanto rovinosamente e in tempi più o meno simili ma dalla sponda politica opposta? Domanda retorica, risposta facile facile: Matteo Renzi.

Quel giorno del 2014, un 25 maggio che l’ex sindaco di Firenze non dimenticherà mai, dalle urne fuoriuscì un risultato che a sinistra nessuno aveva mai raggiunto né, sotto sotto, ritenuto possibile. Il Pd fondato a freddo mettendo insieme gli spezzoni di due tradizioni politoc- culturali strutturali del Paese e tuttavia perdenti dopo l’abbattimento del Muro di Berlino e il ciclone di Tangentopoli, era riuscito a superare la soluzione/ maledizione del 40 per cento arrivando lassù dove nessuno, partendo da sinistra, era mai giunto. I seggi decretarono un’affermazione siderale della lista Democratica e la stella di Renzi cominciò a brillare come una Supernova. E come quel tipo di esplosione galattica ebbe lo stesso destino: abbaglianti nel successo fino alla disintegrazione conclusiva. La cosa più significativa è che la nemesi renziana anche in questo caso si è consumata schiantandosi sul bivio del 40 per cento. Dopo aver solfeggiato la musica dell’esaltazione sullo spartito di palazzo Chigi, infatti, Renzi è saltato fuoristrada proprio nella curva che doveva sancirne la definitiva beatificazione: il cambiamento della geografia istituzionale, l’abolizione del bicameralismo, la nuova legge elettorale. Che pure prometteva come Archimede: datemi il 40 per cento e solleverò il mondo.

Dopo una campagna elettorale infinita e dilatata quanto più possibile per recuperare lo svantaggio in una partita che frotte di laudatores assicuravano già vinta prima ancora di cominciare, il presidente “stai sereno” del Consiglio naufraga finendo a picco sullo scoglio del referendum costituzionale. Inutile dire qual è stata la percentuale della débâcle: un 40 per cento in quel caso decisamente univoco e simbolo di disfatta. Dal 40 esaltante delle Europee al 40 stordente della consultazione referendaria: un tragitto che segna un destino. E che conferma l’indiscusso Totem numerico della politica italiana.

Adesso tocca a Luigi Di Maio. Per uscire dall’impasse sulla richiesta di processo a un altro Matteo, stavolta alleato e non competitor, il capo politico del MoVimento, non riuscendo ad imporre la sua leadership nel gruppo parlamentare, ha scelto di risvegliare la piattaforma che è il tabernacolo che custodisce il Sancta santorum del grillismo che fu. Ha vinto. Ma ha anche perso. Non solo perché per salvare il governo ( e qualcuno dice anche sé stesso) ha contraddetto uno dei principii ideologici pentastellati, ossia il si a qualunque richiesta della magistratura nei riguardi di un esponente politico, ma sopratutto ha visto uscire dal sarcofago come la Mummia che tutto scarnifica, il sulfureo limes del 40 per cento. Che nell’M5S ci fossero dissidenti era noto. Adesso si sono contati e sanno di surfare sull’onda della soglia più eccitante e malefica del panorama politico del Belpaese. Chissà: forse così agendo il vicepremier pentastellato ha imboccato la china di Matteo: quello sconfitto.

Il 40 per cento affascina e folgora, seduce e danna. Magari la via d’uscita potrebbe risiedere nell’abolirlo: passare all’uninominale secco inglese, the winner takes it all, il vincitore prende tutto. Senza più soglie. Bello no? Magari anche no. Laggiù si sono incagliati nella Brexit: meglio lasciar perdere.